In un momento come quello attuale in cui spesso si parla di crisi del cinema italiano e dove appare sempre più evidente la colpevole disattenzione che a esso viene riservata, sorprende felicemente l’uscita su supporto dvd di un classico in versione restaurata, un grande film di un grande regista: Mamma Roma diretto nel 1962 da Pier Paolo Pasolini.

Seconda opera cinematografica del regista dopo Accattone, il film è la storia della matura prostituta Mamma Roma che abbandonata la strada, cercherà di ricostruirsi una vita “normale” accanto al figlio adolescente Ettore lottando contro un passato che sembra compromettere implacabilmente anche il suo futuro. Costretta a prostituirsi di nuovo dal cinico protettore, non riuscirà a salvare Ettore dal degrado sociale e da una corruzione morale di cui proprio lei sarà inconsapevole causa, e non le resterà che guardare, e forse per la prima volta vedere, se stessa e ciò la circonda come sintetizzato dalla magnifica sequenza finale alla finestra.

Le aspirazioni di Mamma Roma si riveleranno infatti una condanna e la costruzione di un’Altra identità legittimata da uno stato di rispettabilità borghese non servirà a nulla, non farà che costruire un altro Sé (un falso Sé?) che sarà soltanto una vana difesa, punitiva, snaturante e ingiusta. La bramosia di riscatto della protagonista, decisa a ripulirsi dal proprio immorale passato attraverso una conversione esclusivamente materiale in signora perbene, costituisce il fondamentale errore di valutazione non solo suo, ma di un’intera società, secondo il pensiero di un regista che nell’Italia dei primi anni ’60 è facile capire come apparisse pericolosamente controtendenza, oggi tragicamente profetico.

La periferia agonizzante in cui Mamma Roma si trasferisce, violentata da quelle distese di cemento che caratterizzeranno il boom degli anni a venire, sono soltanto simboli silenziosi dei tanti reati, dalla “degradazione antropologica della società” alla “delittuosa stupidità della televisione” che Pasolini imputerà allo Stato, tenacemente, fino alla morte.

A dispetto però di una visione pregiudizievole che ha a lungo accompagnato il film, e che ha marchiato tutta l’opera del regista, Mamma Roma non vuole proporre una lotta di classe, o meglio non vuole limitarsi, pur affermando un marcato contenuto sociologico, alla contrapposizione tra il proletariato, humus naturale da cui germoglierà il film, e la borghesia che sembra rappresentarne la fatale corruzione; bensì presenta un affresco, arte nel senso più alto, dell’essere umano nella sua più nuda intimità, nel suo più viscerale candore, nella sua più lacerante tragicità.

Mamma Roma è infatti un puro “film d’anima” in cui i corpi sono usati, mercificati, sporcati con naturalezza e senza la minima commiserazione, poiché si tratta di cose senza valore, gusci vuoti di un bene assai più prezioso: l’anima, che assurge a protagonista unico del film e che lo rende un quadro mistico, quasi sacrale del Sé, uno specchio introspettivo dello spettatore, permeato da un’aura elegiaca tanto intensa da risultare a volte quasi perturbante. Quella che in questo film si delinea è una visione poetica dell’uomo che Pasolini predilige a quella più politico-sociale che aveva fortemente caratterizzato le sue opere letterarie. Qui il regista fonda più forme d’arte insieme, il cinema sì, ma anche i commoventi riferimenti al manierismo e alla pittura rinascimentale o le note di Vivaldi che contrappuntano i furti in borgata, il tutto a comporre la sua filosofia dell’essere, profondamente cristiana nel disperato attaccamento al trascendente ma mai svincolata dall’uomo (meraviglioso il pranzo di nozze di apertura, Ultima cena tra i porci), carica di pietas nel senso più profondo del termine e densa di carità, non certo quella clericale, vile e ricattatoria che la pretende ancorata alla fede, ma intesa come sentimento, come sentire l’altro e con l’altro giungere a sentire se stessi.

I carcerati analfabeti che cantano Dante, Mamma Roma che offre se stessa sui viali raccontando la propria storia e il calvario di Ettore, innocente Cristo sacrificato, sono tutte scene che mostrano l’essenza del pensiero pasoliniano, e che non nobilitano affatto i protagonisti come molta critica afferma, poiché non ce n’è bisogno, ma si limitano a mostrarli nella lucentezza del fango in cui sono immersi.

Contrariamente alle sue abitudini di avvalersi di attori non professionisti, Pasolini volle come protagonista di questo film Anna Magnani, di cui citerà la corsa straziante di Roma città aperta, e anche se la critica e lo stesso regista non furono soddisfatti del risultato finale, troppo levigato dal lustro della diva, la Magnani, splendida Madonna blasfema, ha saputo comunque rendere alla perfezione il contrasto lacerante tra sacro e profano; lei “aristocratica e straccionesca” come volle definirla Fellini, lei “efferatamente popolana, ma di una grazia quasi rinascimentale”, come scrisse l’amica Giulietta Masina in un commosso epitaffio l’indomani della sua prematura scomparsa, lei ancora “Lupa e Vestale”, Mater archetipica, Roma, Natura, ha saputo rappresentare meglio di chiunque altro la poetica di un genio come Pasolini, profonda, lirica e disincatatamente disperata. Un film che, in sintesi, più di tante parole merita il doveroso rispetto della memoria.

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Extra

presentazione di Maurizio Porro, Documentario Cinema Forever