Tenutasi tra il 19 e il 27 aprile 2013, la quindicesima edizione del Far East Film di Udine è partita da un concetto fondamentale: essere un punto di riferimento importante per chi, nelle parole del Centro Espressioni Cinematografiche, continua ad avere “la fame di mondo”, ossia a voler curiosare nell’alterità propria delle culture orientali, in questo caso cinematografiche, senza mai arrendersi all’omologazione che l’Occidente sogna, chiedendo ai paesi asiatici di adattarsi a costumi e credenze a loro estranei e, sempre citando il CEC, continuando “a decifrare quel mondo usando solo i nostri strumenti”. Insomma, il FEFF si è fieramente presentato come paladino delle specificità di ciascun paese presente nella line up, sottolineando anche come tre di questi paesi – Cina, Corea del Sud e Giappone – rappresentino delle cinematografie molto vitali in termini di introiti, dichiarando anche come, in particolare, la Cina sia “destinata a diventare il più grande mercato cinematografico del mondo entro il 2018”.

Tra i film cinesi presenti quest’anno, però, l’idea di alterità e specificità di una cultura millenaria estranea all’Occidente non sempre è stata quella prevalente: si avverte nella macchina produttiva cinese un che di stanco, uno scimmiottamento a tratti stucchevole, a tratti finto, di certi stilemi occidentali che finiscono per dare veramente ai nervi: sia il blockbuster Lost in Thailand di Xu Cheng, cretino fino all’inverosimile, che il melenso inno natalizio Finding Mr. Right di Xue Xiaolu, ispirato al già discutibile Sleepless in Seattle (conosciuto in Italia come “Insonnia d’amore”), sono preconfezionati, prevedibili e affetti da una preoccupante patina occidentalizzante che nulla dice della specificità cinese, se si eccettuano i riferimenti costanti a Weibo, equivalente cinese di Facebook (che, come accade per altri social network, blog e simili dell’Occidente, non è universale né universalmente adottato come strumento principale di comunicazione sulla rete). Anche il dramma storico in costume The Last Supper di Lu Chuan, incentrato sulla figura del fondatore della dinastia Han, Liu Bang, appare uno vuoto esercizio di stile, dove il tripudio di mezzi e di attori (fra i quali Chang Chen e Daniel Wu, sprecati) non basta a coprire l’inconsistenza dell’intera costruzione: alcun crescendo emotivo accompagna la ricostruzione del passato dell’imperatore ed evocare atmosfere shakespeariane per le macchinazioni della perfida moglie e per l’assunto “è il potere a decidere quale storia tramandare ai posteri” pare davvero pretenzioso ed esagerato.

 

Molto più interessanti, dal punto di vista della specificità, sono apparsi alcuni film provenienti da altri paesi: il noir thailandese The Ganster di Kongkiat Khomsiri, rievocazione quasi mitologica della figura di un noto gangster degli anni ’50 realmente esistito, oppure National Security di Chung Ji-young, anch’esso tratto da una storia vera su una pagina della storia della Corea del Sud poco nota in Occidente (e che sicuramente il FEFF 15 ha il merito di averci permesso di conoscere): l’esistenza di un regime dittatoriale, instaurato dal generale Chun Doo-hwan dal 1980 al 1988, caratterizzato da strumenti coercitivi come tortura e campi di lavoro ai danni di attivisti democratici accusati di cospirare contro il governo con la complicità della Corea del Nord. Prezioso, in termini di testimonianza di un’epoca perduta, è anche il bellissimo e commovente Forever Love di Shiao Li-shiou e Kitamura Toyoharu, che rievoca i fasti di un cinema poco conosciuto in Occidente, quello in dialetto Hokkien, che a Taiwan conobbe una stagione d’oro tra il 1956 e il 1970, anno che ne decretò la morte definitiva a seguito della decisione di filmare tutto in mandarino. Una commedia che è anche un omaggio alla grande arte del cinema.

Le commedie, come sempre a Udine, hanno rivestito un ruolo preponderante: segnaliamo per i loro toni pacati, lontani dal ritmo frenetico del nostro mondo iperattivo e sempre di corsa, il coreano The Winter of the Year Was Warm di David Cho e il taiwanese Will You Still Love Me Tomorrow di Arvin Chen, entrambi con il pregio di “aggirare” la love story virandola verso quella terra incognita dove tutto è sospeso e germinante di possibilità.

 

Un’edizione che dichiaratamente compie un gesto simbolico, “spogliandosi di tutto e ritornando alle origini”, ossia al numero zero, quando il FEFF si chiamava Hong Kong Film, non poteva non omaggiare la Perla d’Asia: le due sezioni speciali di quest’anno, una dedicata al Fresh Wave (rassegna hongkonghese di cortometraggi), l’altra a King Hu, il cui capolavoro A Touch of Zen ha costituito il film d’apertura (ad ingresso gratuito) del festival, ribadiscono come il FEFF voglia continuare ad essere quello che è sempre stato, una vetrina di quello che di meglio le metropoli asiatiche hanno da offrirci, nella speranza che nessuna di loro perda la propria specificità in una corsa dissennata a copiare l’Occidente ma dispiegandosi nel cielo come draghi maestosi.