Tratto da alcune storie a fumetti di Frank Miller - Sin City, Sesso e Sangue a Sin City e Quel Bastardo Giallo - e diretto dallo stesso Miller insieme a Robert Rodriguez (con Quentin Tarantino accreditato come presenza aggiuntiva dietro la macchina da presa), Sin City mostra tre vicende che s’intrecciano nei bassifondi della corrotta (Ba)sin City, città immaginaria infestata dal crimine: quella del folle e brutale Marv (Mickey Rourke), alla ricerca dell’assassino di una bellissima prostituta, misteriosamente uccisa sul suo letto mentre lui dormiva; l’ex fotografo Dwight Mc Carthy (Clive Owen), che contribuisce all’omicidio di un poliziotto (Benicio Del Toro) cercando di nasconderne le prove; il poliziotto in via di pensionamento Hartigan (Bruce Willis), che cerca di salvare una bambina dalle grinfie di un pedofilo pluriomicida coperto dal padre senatore. Sullo sfondo, prostitute armate fino ai denti, cardinali e presunti mistici dediti al cannibalismo più feroce e tanta, tantissima violenza al limite del gore, anche se rigorosamente in bianco e nero, con improvvisi e violenti sprazzi di colore (prevalentemente il rosso) isolati nel buio dell’ambiente circostante, buio che cerca forse di suggerire l’inferno che si nasconde nei vicoli di questa città maledetta.

Il film, nato come dichiarata trasposizione fedelissima della fonte originaria, paradossalmente risente proprio del suo voler essere nulla più che una esatta “riproduzione”  dell’universo grafico creato da Miller. Se la scelta di rapportarsi fedelmente al fumetto si rivela efficacissima sul piano della fotografia (che mette appunto in evidenza fulminee macchie di colore sul bianco e nero perenne di un mondo di bastardi e di perdenti), risulta però appesantire lo svolgimento della trama sotto altri profili. Innanzitutto, la voce fuori campo, equivalente cinematografico delle didascalie spesso presenti nell’opera illustrata di Miller, all’inizio può forse far sorridere come trovata un po’ demodée in stile hardboiled anni 30, ma alla lunga diventa noiosa, raggiungendo quasi un’involontaria comicità. L’enorme dose di violenza ostentata, inoltre, che nel fumetto trovava la propria ragione di essere come parodia esasperata del noir più cupo - una sorta di summa di Chandler ed Ellroy messi insieme e conditi all’ennesima potenza - nel film risulta troppo finta e nauseante, con scene che rasentano il ridicolo (come per esempio le varie teste di donna-trofei appese ai muri o le numerose ferite che grondano sangue - bianco - senza che nessuno si decida mai a morire). In definitiva, la forza di un fumetto sovraccarico ed eccessivo come quello di Miller risiede nella struttura stessa del fumetto come mezzo di comunicazione che, simile a un libro, si può lasciare e riprendere in qualsiasi momento, dura nell’arco di (spesso) poche pagine che permettono di apprezzare certe scelte esasperate anche grazie al tratto del disegnatore. Per contro, voler ricreare un universo così carico e perennemente all’eccesso di tutto (nudità e violenza crude e brutali) con un medium completamente diverso come il cinema - e per di più volerlo fare in un film della durata di ben due ore  - è una scelta piuttosto azzardata, che va a snaturare l’efficacia della storia sul piano filmico. Forse, proprio discostandosi dal fumetto i registi avrebbero potuto creare un film “vero”, poiché quelle stesse trovate che nell’illustrazione andavano a scardinare una certa idea tradizionale di fumetto, nel film si trasformano in quadri statici e stucchevoli, che non lasciano granché nella memoria di chi lo guarda né sul piano dei contenuti né su quello della forma.