Leggere Tre volte all’inferno è come farsi contagiare da pensieri con «artigli taglienti». Cristian Borghetti presenta tre storie che sembrano incubi ma che in realtà affrontano le infinite possibilità della fantasia creativa di fronte ai miseri mezzi che ha la realtà per comprenderla.

Tre storie nate, fermentate e divorate di notte, quella notte dal «colore muto» che contraddistingue la nostra percezione del reale: tre storie nelle quali il lettore è la vittima sacrificale sull’altare della creatività.

Già con il primo racconto, Il bacio di Medusa, Borghetti ci dà un indizio: il sottotitolo parla chiaro, «il nero veleno è già nei tuoi occhi». Non ne è subito conscio, ma ormai il lettore è contagiato dalla nera scrittura dell’autore... anche se i ruoli non sono così netti!

Nel secondo racconto, Il canto di Lucifero, l’autore delega la propria mansione al personaggio protagonista, che è uno scrittore in realtà impotente: sono i suoi sogni a creare la realtà, portata in scena dall’amico attore. È una realtà di colore rosso: «quel potente colore venuto in sogno aveva cominciato ad avere sul mio animo un potere tremendo, come un’ebbrezza che costringe a trattenersi nel sonno per non fuggire dalla seduzione pericolosa dell’incubo».

Non bastassero due contendenti ad attribuirsi il ruolo di autore, vi subentra presto il lettore: la sua percezione della storia muta ad ogni paragrafo e alla fine si è convinti di aver letto qualcosa che con il testo stampato ha poco a che vedere.

Chiude la nera follia Il labirinto del basilisco, altra ferita inferta al reale in cui di nuovo il sogno sottrae alla realtà qualsiasi forma di essenza. Il protagonista si trova di fronte ad una biblica e babelica Torre, quasi un altare ad antichi dèi dimenticati - e cos’è la divinità se non la forma più sublime di creatività? La notte dal colore muto avvolge la percezione dell’uomo e crea ciò che i suoi sogni temono di palesare.

«Su una base insignificante di realtà - scriveva Strindberg - l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni». È un’immaginazione folle, quella a cui Borghetti dà voce, è un’idea «crocifissa in una notte scellerata», una creatività «rossa come la scena lorda e madida di sangue», una verità infettata dal dubbio, «come una figura femminile venuta dalle pagine di una strana storia, già conosciuta».

Le idee sono pericolose, e l’autore non solo ne è perfettamente consapevole: trama per renderle ancora più letali! «Grandi idee bruciavano su roghi... Roghi accesi dalle stesse grandi idee». Sono idee che trascendono dal mondo iperuranio per invadere la nostra realtà e arricchirla di sangue nero: l’essenza della creazione.

Borghetti è stato salutato come nuovo luminoso (parola che uso a sproposito, data l’oscurità della sua scritture!) esponente del gothic italiano. Non mi intendo di etichette, ma so che la realtà non ha catalogazioni: e Borghetti è alla realtà che lancia i suoi strali creativi, la ferisce e ne fa sgorgare il sangue dell’umano creare. «Quando il sangue cominciò a cadere invadendo la terra e lasciando fogli di carta, i maledetti avvenimenti di questo mio racconto cominciarono a manifestarsi»...

Un’ultima nota. È quasi con commozione che va sottolineato l’uso da parte dell’autore della punteggiatura più dimenticata dalla distratta grammatica italiana: il punto e virgola. Questo Galata morente della nostra interpunzione è dato ormai per spacciato dalla maggior parte degli scrittori italici, invece qui è dimostrato che ogni periodo contraddistinto da un punto e virgola respira di vita propria e porta ossigeno al lettore.