Ancora acqua per Emanuele Crialese: da Respiro, passando per Nuovomondo fino all’ultimo Terraferma, la molecola costitutiva della vita sul pianeta è la stessa della poetica del regista di origine siciliana. Ma non è solo questo a rendere il suo cinema vivo. Ci sono una regia semplice - mai vittima dell’inquadratura e al servizio della narrazione - la scrittura e il lavoro sugli attori.

In Terraferma Crialese torna a parlare d’immigrazione, formando col precedente Nuovomondo un prezioso dittico sul tema. In un certo senso, la sua ultima fatica sembra completare una profonda e complessa riflessione sulla migrazione percorrendo, a distanza di un lustro, vie differenti se non opposte: nel 2006 poetiche e intimiste e nel 2011 crude e realiste. Specularità stilistica - anche se non rigidamente tematica e, con ogni probabilità, preterintenzionale - che non è cosa da poco.

Questa volta la terra promessa è l’Italia e i migranti la gente d’Africa. I personaggi si confrontano con un’attualità che è ancora un corpo caldo, tutt’altro che il cadavere che la cronaca nazionale ha già seppellito. Gli abitanti dell’isola su cui si snoda la storia sono figure pasoliniane, gente sospesa tra due tempi, provata dagli attacchi dello Stato all’antico spirito di solidarietà dei popoli che si affacciano sul “mare nostrum”. Quel Mediterraneo che Jean-Claude Izzo ha provato a infilare in mezzo ai nostri sogni.