«È paradossale, ma per certe donne la bellezza diventa un’ossessione alienante, a un punto tale che le uniche mani che finiscono per riuscire a toccare il loro corpo sono quelle dei medici. E a volte sono i medici gli unici che le vedranno nude». Non è solo una storia di bellezza rincorsa, quella raccontata da Vittoria A. in Un peso sul petto (Eclissi, 2011), sua seconda prova dopo l’entusiasmante “Dannati Danni”, sempre pubblicato per Eclissi. È una vicenda composita che tratta a tutto tondo alcuni baratri della nostra contemporaneità e lo fa partendo, come in un giallo serio (ma questo libro non può limitarsi ai confini del giallo, per definirlo con precisione occorre sporgersi anche oltre le sponde del noir), dal ritrovamento di due cadaveri: quelli di Alba Smyth e Arabella McAllister, bionde e snelle signore appartenenti alla capricciosa borghesia di Edimburgo, nonché amiche d’infanzia, ma soprattutto pazienti dello stesso chirurgo plastico. Edmund Bishop è il nome del medico, personaggio interessante, votato al suo mestiere come scelta di vita e come riscatto da una natura poco generosa, che non l’aveva dotato di un aspetto interessante:

«Visto che non gli sarebbe mai stato possibile rendere più gradevole il proprio aspetto fisico, fin da ragazzo aveva giurato a se stesso che avrebbe comunque combattuto e vinto la sua guerra contro gli inestetismi utilizzando come campo di battaglia il corpo dei suoi pazienti. Si sarebbe trasformato nel mago in grado di modellare la materia...»

Il commissario Hugh Robertson, l’assistente Laura Bennet e l’ispettore capo Mike Rooney tentano di sgrovigliare l’enigma inquietante: chi ha ucciso? Il ritrovamento ci impone una scena del crimine su cui i professionisti si lambiccheranno: le salme sono state rinvenute distese, supine, con la testa girata di lato, senza vestiti e senza scarpe. L’unico accessorio lasciato accanto è la borsetta. I potenziali sospetti sono diversi, a partire dal goffo Barney, quarant’anni, un lavoro grottesco – fa il fantasma nell’agenzia Il Tour dell’Inferno – che è appendice del suo aspetto da clown: macrocefalo, lentigginoso, capelli rosso-arancio, pelle rosea ma rugosa, mani come zampe che «nessuna donna avrebbe tollerato di sentirsi addosso senza in cambio il risarcimento di una cospicua somma di denaro».

La ruota si amplia quando si allarga il giro di amicizie delle donne uccise e quando si scopre che collante, tra loro, è un certo Paul, detto Baratro, il cui soprannome è anticipo della sua essenza scoordinata. Cosa c’entra con le signore distinte portate alla ribalta del delitto? C’entra eccome, vedrete. E vedrete che spunta in scena un altro morto, ma la matassa si sbandola e sorprende il lettore.

Gli ingredienti miscelati nel romanzo sono diversi, mai eccessivi, dispensati con competenza: intrighi, ricatti, farmaci, reminescenze di folklore scozzese, luoghi suggestivi e un’Edimburgo doppia, cangiante, a tratti gotica. Scoprirete alcune “chicche” come la pratica del “burking” (tradotta col termine “burkizzare”) in riferimento a un metodo di soffocamento.

Mantenendo con equilibrio la sua vena humor – ma senza permettere che spodesti i momenti seri – l’autrice dimostra grande padronanza su un narrato eterodiegetico, fluido e intenso, descrizioni e retrostorie alternate a dialoghi verosimili, personaggi che calzano a pennello il loro ruolo. Un libro che conferma Vittoria A. la scrittrice di razza già preannunciata, nel 2009, ai lettori del suo romanzo d’esordio.