Se amate il Fumetto con la F maiuscola, se le graphic novels rientrano tra le vostre letture preferite e se avete in tasca 14 euro, bene, non abbiate dubbi: correte nella più vicina fumetteria, o in una libreria ben fornita, e accaparratevi il piccolo capolavoro chiamato Luna Park.

Uscito nel 2009 presso DC Comics e pubblicato in Italia da Magic Press, l'opera porta la firma del del genio Danijel Zezelj, disegnatore amato da Federico Fellini, e dello scrittore Kevin Baker, all'esordio nel mondo dei comics, ma ben noto al pubblico americano per la trilogia di City on Fire, composta da Dreamland, Paradise Alley e Sometimes You See It Coming.

 

Centro emotivo e cuore propulsivo della narrazione sono gli incubi di Alex Strelnikov, un criminale mezza tacca russo che, sfuggito dieci anni prima alla guerra cecena, vede infrangersi i propri sogni di riscatto in un'America funerea, di cui Coney Island non è che l'effigie simbolica. La sua vita è una dolorosa trafila tra droghe, piccoli reati, rimorsi, rimpianti e, soprattutto, una sofferente relazione con Marina. Marina. Altro personaggio della schiera degli indimenticabili, si tratta di una chiromante e prostituta part-time, avvezza alle droghe come il suo amante e legata a doppio filo al boss Mr Z., da cui ha avuto una bambina e che, oltretutto, è il principale nemico di Nicky D., il capo di Alex/Alik.

 

La relazione tra Alik e Marina si struttura, dal punto di vista visivo, come un duello di volti e corpi che si prendono e lasciano, che urlano e scopano e i cui moti dell'anima frastagliano la pagina in una lunga teoria di pannelli verticali, primi piani, inquadrature di quinta o, ancora, splendide aperture dall'alto che isolano i due nello squallore della loro abitazione.

 

Dal punto di vista tecnico, Luna Park è un delizioso gioiellino, capace di evocare atmosfere decadenti e terminali, sia immergendo i personaggi in autunnali campi lunghi e lunghissimi dove lo sguardo del lettore si perde nella desolazione del paesaggio, sia riempiendo questi spazi della ruggine, del degrado e della disillusione di un sogno americano oramai agli sgoccioli. L'habitat in cui si muove Alik è un giardino urbano di spettri e fantasmi. La preminenza, anche narrativa, riconosciuta ai luna park li enuclea come luoghi, par exellence, della memoria. Depositi di ricordi e malinconie, i parchi divertimento in disfacimento viaggiano sul binario parallelo della vita di Alik, anch'essa inclinata verso un'inesorabile (auto)distruzione. Laddove si era più gioito, laddove si era goduto, per un'ora, per una mezza giornata, per qualche minuto, della pura spensieratezza del gioco, della maschera, della libertà, ora si soffre, con più intensità, della trasformazione urbana che sottrae gli spazi della condivisione gioiosa per farne altrettanti dispositivi del consumo organizzato.

 

Buona parte del godimento estetico procurato da questo volume, va ascritto, per onestà, alle splendide inchiostrazioni di Dave Stewart, i cui bagni di colore scavano solchi di inquietante potenza espressiva negli occhi e nella mente del lettore. E allora il viraggio in rosso con cui si apre il sogno terribile di Alik, in mezzo a una Cecenia dilaniata dalla guerra, provoca uno shock percettivo, in confronto al grigio cinereo e all'azzurrino stinto da cui provenivano le immagini del piccolo criminale intento a preparare una siringa d'eroina per attraversare l'ennesima notte buia.

 

Zezelj e Baker si servono della maestrìa di Stewart per disegnare/designare gli esiti emotivi della storia. Per farlo, immergono il racconto in una serie di particolari di significativo rilievo: così la Coney Island in disarmo si colora, comunque, tra una minaccia e un pestaggio realizzati da Alik per conto di Nicky D., di scorie affettive del passato. Come le piccole vignette verticali con i dettagli di plum cake, prosciutto affumicato, bejgli ai semi di papavero – gli odori di un cibo da strada a sua a volta in grado di tracciare una mappa olfattiva delle etnìe che consumano il suolo di N. Y. -, o come il bel campo lungo che ritrae le famiglie ebree a godersi l'aria buona dell'oceano nelle serate estive.

Tutti riti sociali al tramonto, soppiantati con violenza inaudita dalla forza d'urto del capitale che lascia solo case popolari e ragazzini che vendono droga ad altri ragazzini.

 

In tutta la storia aleggia uno stato denso di disperazione e rassegnazione. Così anche i tarocchi improbabili per mezzo dei quali Alik abborda Marina (o viceversa) narrano altri racconti, altre trame di morte e ferocia. Essi rappresentano pure il campo in cui Zezelj sperimenta la sua straordinaria perizia pittorica: nel rievocare le antiche vicende della regina di Kiev, egli ci offre due pagine, perfettamente divise in sei pannelli orizzontali ciascuna, di puro spettacolo visivo allestito sotto il segno grafico delle illustrazioni dei tarocchi, dominato da linee rozze e  colori primari (e mutuato da queste dall'arte della miniatura bizantina).

 

D'altronde la cultura sovietica è un referente essenziale per comprendere il libro. Nel lungo flashback, per nulla terapeutico, con cui Alik ci accompagna nel passato glorioso e tragico dell'URSS, un passato (che) si abbatteva su di lui, riemergono i fantasmi delle guerre, simboleggiate dalla bandiera rossa con falce e martello, impugnata dal bisnonno (eroe del secondo conflitto mondiale), dal nonno pilota dell'esercito sovietico e, infine, dal padre (soldato in Afghanistan). Il nazionalismo russo, alimentato dai racconti del nonno, si condensa in uno spirito patriottico che precede persino le glorie e le miserie del comunismo, in una panoramica che esalta la difesa della terra, delle donne, delle vite da nemici famelici come lupi, siano essi mongoli, tedeschi o americani. Ma, a contatto con l'abbrutimento umano, morale, con le violenze ingiustificate e le barbarie della giungla cecena – ripresa sempre nel rosso allucinato di Stewart – le pompose dichiarazioni patriottiche si sbriciolano come costrutti senza valore.

 

Convinzione, questa, vieppiù alimentata dall'efferato omicidio della giovane e affascinante vedova Mariam. Nella discesa agli inferi di Alik è questa la madre di tutte le sconfitte: Mariam, con cui Alik aveva intrapreso una tenera quanto pericolosa relazione, perisce sotto gli occhi di Alik, per mano dei suoi stessi commilitoni, cui aveva offerto su un piatto d'oro la testa di Basayev, anch'egli ucciso nel conflitto a fuoco, in cambio della libertà. Ma il suo superiore, il colonnello Boris Aleksandrovic, tradisce i patti, pur di accaparrarsi lo scalpo del più temuto dei capi dei ribelli ceceni e, così facendo, provoca la morte di Mariam.

 

Non si tratta di un dettaglio da poco. E' infatti a questo punto che il plot svolta, lievitando a metafora del potere e dei suoi rapporti con chi ne è escluso. Che si tratti di colonnelli o boss della mala, la sostanza non cambia. Chi detiene il potere tratta il resto dell'umanità come pulci, come “piccole bitki”, insignificanti pedine di un gioco più grande a base di sangue, crudeltà e cinismo.

 

Alla fine, Alex progetta un'ultima mossa: dare in pasto Mr Z. a Nicky D., in cambio della libertà (ancora una volta).

Ma si tratta dell'ennesima folle illusione: in una sequenza grigia, livida, immersa in una luce abbacinante che avvolge vignette distorte (dal basso, con grandezze e proporzioni alterate), si frantuma miseramente l'ultima speranza di vita. Alik, ferito, fugge. Fugge a perdifiato, in luoghi a lui familiari che si tramutano in grotteschi sipari. Alla fine, lo scorge e mette in salvo Marina. Salvezza apparente, perché è lì che i sipari si strappano, le apparenze si sbriciolano, la Storia e le storie collimano. Ed è l'impianto narrativo – in questo preciso frangente dell'intreccio – ad assumere la foggia di un luna park: i lettori salgono sulle montagne russe, si perdono in un caleidoscopio di futuri e passati alternativi.

 

Così, letteralmente, Marina apre il sipario su una meravigliosa splash page a doppia pagina, che fa piombare il lettore nel fiume di attrazioni, poveri, ricchi,  circhi, venditori ambulanti della variopinta Coney Island di inizio '900. Qui un Alik bambino, sfuggito insieme alla sua poverissima famiglia russa alla povertà, alla miseria, alle conseguenze della guerra col Giappone, cerca nell'America la sua terra promessa (simboleggiata da un campo lunghissimo laterale della Statua della Libertà), pur con il rimpianto di un giovane amore lasciato nelle nevi di Novgorod. Una volta cresciuto, Alik si arruola nell'Esercito e va a difendere la nuova patria durante la Prima Guerra Mondiale. E lo scenario è quello comune a ciascuna esperienza bellica: uomini ridotti a bestie. Proprio Alik, al culmine di un'azione di guerra particolarmente cruenta, ancora lordo del sangue dei nemici trucidati, ulula come un lupo. Come un eterno ritorno, Alik è assegnato a una missione russa, che gli offre l'occasione di ritrovare Milocka, l'amore perduto che ora, però, è vedova e ha alcuni figli. Ma saranno ancora lutti, miserie, tradimenti.

Marina, in un breve, fulminante, flashforward, prova a spiegare ad Alik che trattasi di suo nonno.

 

Ma è solo uno dei possibili futuri o passati di una Storia – quella russa - che può incarnarsi in tante, molteplici e multiformi storie singolari. Una Storia, racchiusa in una straordinaria fantasmagoria di quadri (racchiusi in meravigliose vignette/pannelli orizzontali) dedicati a fatti storici, o storicamente possibili: “una grande principessa vendica l'assassinio del marito”, “un principe rinnegato tradisce l'esercito della Rus' in favore del Gran Khan”, “la puttana di un ufficiale gli parla dell'ammutinamento programmato dagli Strel'cy, i soldati d'elite dello Zar”, “Anastacia, la moglie di Ivan il Terribile, giace avvelenata” e così via. Una Storia in cui sono sempre i più coraggiosi ad essere traditi e i più derelitti (come i contadini perseguitati dallo Zar, da Lenin, da Stalin, da Breznev) a soccombere. Una “grandiosa sinfonia di morte e tradimenti”, appunto,  orchestrata da figuri loschi, bigger than life, tra cui troneggia, sinistro, subito dopo Stalin lo stesso Vladimir Putin (in un'altra vignetta ad altissima pregnanza segnica).

Contro questa macchina della guerra e dell'orrore, della ferocia e della violenza di Stato, non c'è Alik che tenga. Ed è forse il meno che possa accadere al fallito di turno, forse oppresso da questo veleno che ogni russo macera dentro sé, progettare l'omicidio del presidente John Fitzgerald Kennedy: in un'altra delle ucronie/distopie possibili, è questa l'opportunità per guadagnarsi gli onori della cronaca e cancellare l'oblio di sterminate masse di alienati.