Sino ad oggi (perlomeno sino al momento in cui Rick Altman ha cominciato, nel 1984, ad applicare il suo modello analitico al genere) le possibilità di lettura del testo non solo filmico muovevano su due diversi raggi d’azione. Il primo, che privilegiava la dimensione iconologica, tendeva a concentrare la propria azione sugli aspetti semantici del processo di scrittura. Il secondo, che muoveva su una dimensione più antropologica, finiva, invece, per chiudersi sulla sola sintassi. Entrambi gli approcci al testo, per quanto motivati ed importanti nella lettura, non aiutavano lo studioso ad un corretto inquadramento dello stesso all’interno di un genere specifico. In un certo senso erano più utili a decifrare il film che non il filone al quale quello stesso film si iscriveva. Soprattutto non permettevano un preciso inquadramento del genere all’interno di un preciso contesto ospitante. Erano delle letture “in astratto”, che concepivano il genere stesso quasi come una categoria platonica, estranea al dipanarsi della Storia e al muoversi della società che lo produceva.

Nella migliore delle ipotesi, anzi, i due diversi approcci analitici finivano per produrre letture opposte degli stessi testi filmici. Un paradosso qualche volta imbarazzante che non poteva non obbligare lo studioso ad una totale riformulazione della metodologia.

Il modello proposto da Altman, ed applicato con successo all’interno di I tre volti della paura, pregevole saggio di Francesco Di Chiara, non si limita ad una formulazione semio-sintattica, ma la integra con una prospettiva pragmatica nella volontà di restituire un’immagine diacronica del genere preso in esame. La lettura, infatti, per funzionare correttamente, non può più accontentarsi di fermare la sua azione sui soli testi presi in esame, ma deve allargarsi ad altre realtà, ad altre produzioni che sono affini, ma distinte. E qui sorgono, per Di Chiara che scegli un filone "minore" come l’horror italiano, i primi problemi di ordine pratico. Il primo, di ordine universale, è quello relativo al fatto che il pubblico, destinatario necessario del film, non si fa produttore a sua volta di un testo che possa essere preso in esame. Il secondo, relativo, invece, al genere oggetto di indagine, è legato ad una contingenza storica. Al loro uscire, infatti, gli horror italiani, nella loro dimensione produttivamente limitata e già rivolta ad un pubblico estero, furono scarsamente recensiti dai quotidiani italiani e la loro analisi critica è più viva oggi di quanto non lo fu al tempo di uscita.

Per trovare testi ulteriori che siano d’appoggio all’analisi dei singoli film, il saggista è, quindi costretto, a rivolgersi a realtà apparentemente marginali come la fitta produzione di fotobuste, locandine e affissi del film, oppure a realtà collaterali come i libri di genere venduti in edicola (esempio illuminante la classica collana de Il giallo Mondadori) da cui molto attinsero gli stessi autori dei film e dei vari “gridi” pubblicitari).

Da questa visione estremamente stratificata del testo emergono piste interpretative insospettate. Ad esempio si fa rapidamente piazza pulita della vulgata tradizionale che vede nell’horror italiano un rapido ricalco dei coevi film di genere della Hammer. Se è vero, infatti, che i produttori furono allettati dal successo commerciale delle pellicole con Christopher Lee, nondimeno i modelli di riferimento dei primi cineasti (che oltretutto lavorarono, nei film prototipo sul bianco e nero e non sul colore come invece faceva Fisher) restarono legati alle atmosfere del cinema espressionista con particolare riferimento (incredibile a dirsi) al classico Vampyr di Dreyer. Anche la seconda fase dell’horror italiano (quella aperta da L’orribile segreto del Dottor Hitchcock nel 1963), pur più assimilabile, almeno per l’uso espressivo del colore, alle produzioni anglosassoni, puntava, invece, la sua ispirazione più alle pellicole americane del maestro del thriller (omaggiato sin dal titolo) e alle coeve opere cormaniane per la AIP che non ad altro.

Francesco Di Chiara ricostruisce in questo modo, l’avventurosa evoluzione di un genere che da una prima ambizione produttiva (fortissima ad esempio ne La maschera del demonio di Bava pieno di articolati movimenti di macchina) proseguì sul suolo italiano in una resistibile corsa al ribasso, ansiosa più di recuperare sugli incentivi alla produzione nazionale che non sulle reali possibilità di una distribuzione a tappeto. Così mentre le pellicole cominciano ad annaspare tra scenografie di recupero da altre produzioni (Galatea) e l’uso insistito di singole locations attraversate da repentine zoomate, il genere comincia a diventare cartina di tornasole per la storia di un’evoluzione del costume sessuale degli italiani.

Ed è proprio su questo versante che si gettano le basi della produzione a venire che serializza la formula nel tripudio di delitti e definisce una dimensione censoria e punitiva della sessualità anormale (omosessualità femminile omologata alla necrofilia e all’adulterio). In questa prospettiva si spiega l’inserimento nel corpus dei film analizzati (solo otto: una saggia delimitazione di campo) di un’opera come Sei donne per l’assassino che, pur non appartenendo specificamente al genere analizzato, apre però le porte al futuro Dario Argento. Una scelta giusta, ma forse poco rigorosa in un saggio sino a questo momento di lapidaria (visto il tema trattato) precisione.

Francesco Di Chiara scrive un libro avvincente e bello che si fa meno convincente solo nell’ultima parte dedicata in maniera forse un poco frettolosa all’analisi degli affissi e delle locandine come strumenti volti alla definzione di una precisa ricerca di pubblico. Ma probabilmente è solo l’impressione prodotta dal concludersi di un saggio così avvincente da farci desiderare il prolungarsi della lettura.

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