Herta Müller è nata il 17 Agosto 1953 a Nitzkydorf, Romania. Appartiene a una minoranza di lingua tedesca, la lingua in cui scrive le sue opere. Ha studiato all’università di Timisoara e dal 1976 lavora come traduttrice in un’azienda dalla quale viene licenziata quando rifiuta di collaborare con la Securitate. Sotto la dittatura di Ceausescu conosce la censura, la persecuzione e gli interrogatori. Nel 1987 si trasferisce in Germania dove nel 1995 viene accolta nell’Accademia tedesca di Letteratura e Poesia. Nel 2009 è stata insignita del premio Nobel per la letteratura con Il Paese delle prugne verdi, edito in Italia da Keller con la traduzione di Alessandra Henke. Inoltre riceve numerosi riconoscimenti come i premi Roswitha, il Kleist, l’IMPAC Dublin Literary, il premio della Konrad-Adenauer Stiftung e infine il premio Hoffman.

L’ultimo suo libro, L’altalena del respiro, è uscito da poco in Italia per Feltrinelli con la traduzione di Margherita Carbonaro.

Il cortile del Guazzatoio è animato da una moltitudine in attesa. Quando Herta Müller sale sul palco è così minuscola che pare quasi aggrapparsi a quel leggio troppo alto. Alle sue spalle la pietra bianca della Pilotta si staglia ripida e luminosa, enormi batuffoli bianchi corrono in un cielo estivo e freddo e si gonfiano come neve soffice che il vento ammucchia a caso.

Dopo una breve presentazione, Theresia inizia la sua intervista.

Qual è per lei la differenza tra la sua  prosa e la poesia?

Non crede che fra queste vi sia grande distanza. Una buona frase deve essere una buona frase. Solo questo. Ma le sue poesie non sono scritte con la penna, ma con le forbici. Sono testi che nascono da collages di tante parole diverse.

Schermo e immagini scorrono alle loro spalle. Immagini dure, fredde, fra le quali danzano parole ritagliate dai giornali, parole fatte di colori e carta diversi, di caratteri enormi e minuscoli. Parole pronte all’uso.

Solo la voce della poetessa riempie questo spazio antico, legge poesie dal suono dolce e dal significato duro. Racconta di parole tagliate con le forbici, della paura e dei silenzi che esprimono, di come queste parole ti guardano, riposano, respirano. Parole che sono fatte di terra e di luna, di vertebre e stoppie ardenti, di luce lattea e legno morto, di dittatori assassini e lavoratori nei fossi. Parole che, come dice lei, devono brillare fino a fare male.

Ma ci racconta anche di come le parole la chiamano, le parlano, l’attendono.

Come ha iniziato a ritagliare le parole già pronte?

Ha iniziato per caso mentre si trovava in viaggio, ritagliandole da riviste e giornali, e incollandole su cartoline da spedire agli amici. A casa ha cominciato a ritagliarne sempre di più, lasciandole poi riposare sul tavolo della cucina. Aspettando che fossero pronte.

Pronte per cosa?

Pronte per vivere un’altra vita, per entrare in una frase nuova, per dire altre cose, per rimare con parole diverse per forma e significato. A volte restavano lì mesi, si impolveravano, e alla fine doveva buttarle. E provava un certo dispiacere nel farlo, come se andasse sprecato qualcosa. Alla fine si è decisa a comprare un raccoglitore di metallo in cui catalogarle e le conservarle, creando una sorta di officina delle parole.

Quando viveva in Romania, dice, la carta era brutta e povera, mentre in Germania i giornali hanno carte belle lucide, robuste e dai colori brillanti.

Le parole fluttuano, sono parole di uso comune, abituali e usata da tutti. E mentre stanno lì e ti guardano dal tavolo della cucina è come avere davanti un quadro da comporre.

Come nella vita.

E una volta che le hai incollate non possono più essere rimosse.

Come nella vita. Per questo a volte le lascia lì per tanto tempo, a riposare prima di incollarle.

Come nella vita.

In fondo in questo esperimento il gioco è trovare quelle che ti colpiscono, che rimano con le altre, che contengono emozioni.

E quanto conta il caso in tutto questo?

Il caso conta molto in queste composizioni, A volte sono le parole a scegliere lei, a volte è lei che le sceglie. Tirandole a se, dando loro un ritmo, un tempo e una rima.

La rima è spesso imprevedibile, ma guida il testo. Spesso è proprio l’idea della rima a stimolarla, l’incontro fra due parole improbabili. Inoltre, ci racconta ridendo, a scuola era incapace di disegnare, di creare. Ora con le forbici ha esorcizzato questo fatto dando vita a composizioni che sono anche visive.

Ma scrivere con le forbici è un gesto che esprime in qualche modo violenza?

No, è un gesto d’amore. Dare nuova vita a parole già usate, avvicinarle une alle altre in modo nuovo e diverso. Creare è sempre un gesto d’amore. In questo caso il taglio non distrugge, ma compone.

Poesia verso prosa?

Anche se usa parole già pronte, la sua storia è sempre quella. Ho una sola testa a disposizione, dice, e funziona sempre nello stesso modo. Quindi è ovvio che le mie poesie e la mia prosa si riflettano.

Inoltre tagliare le parole serve per diventare essenziali. Non ci sono sprechi come quando si scrive, è come se uno acquisisse responsabilità, perché la parola è lì, che ti guarda. Si perde il poetese.

In dittatura le poesie sono necessarie?

Certo, devono essere brevi e belle, per ricordare. Nessuno può togliertele, diventano una cosa solo tua. Come una proprietà del popolo. Nelle fabbriche nascevano poesie bellissime che venivano ripetute a memoria.

Diventavano come una specie di preghiera. La poesia diventa preghiera, e lei non ha mai pregato, perché aveva la poesia.

Nella paura nascono poesie bellissime perché in fondo la paura è un ottimo autore, riconosce la sostanza del testo.

Lei scrive in modo autobiografico?

No, ma le cose che l’anno spaventata o colpita fanno parte della sua poesia, della sua prosa. Non sceglie i suoi temi, fanno già parte di lei. La vita non si scrive, si rielabora, si trasferisce in altre parole e diventa arte.

Nel suo caso la sua arte è stata molto influenzata dal fatto di essere sia rumena che tedesca

Questo l’ha resa capace di ascoltare la lingua, di vedere tutto con due sguardi diversi, ognuno con la propria lingua.