Triste destino quello degli pseudobiblia: per giustificare il fatto che in realtà non esistono, dopo un intero romanzo in cui vicende umane si intrecciano intorno a loro, ecco che arriva il fuoco a rimettere le cose in ordine. Lo abbiamo già visto con il secondo libro della “Poetica” di Aristotele, creato da Umberto Eco per il suo romanzo “Il nome della rosa”: sia il libro che un’intera biblioteca svaniscono fra le fiamme di un’implacabile realtà, che non ne vuol sapere di accettare l’esistenza di libri falsi.

Quelli qui presentati sono altri tre esempi di pseudobiblia finiti in cenere, gli ultimi due accomunati anche da un altro elemento, ma andiamo con ordine.

 

Nel 1994 il più imponente attacco alla bibliofilia arriva da una breve pièce teatrale pubblicata anche in libreria, “Libri da ardere” (Les Combustibles), a firma della belga Amélie Nothomb.

Amélie Nothomb
Amélie Nothomb
Siamo in un non meglio specificato futuro, dove i sopravvissuti ad un olocausto vivono al freddo ed al gelo delle città. La civiltà, come noi la conosciamo, non esiste più, né tutti i servizi che essa offriva: primo fra tutti il riscaldamento.

L’autrice ci presenta solo tre personaggi (il professore, Daniel e Marina) come simbolo dell’umanità sopravvissuta che tenta disperatamente di continuare a vivere, e soprattutto di non perdere l’“umanità”. Ma non è facile quando il freddo attanaglia il corpo, e tutto il combustibile in giro è stato usato e finito... O forse no?

«MARINA: Professore, la stufa si è spenta.

IL PROFESSORE: Lo so, Marina. Non ho più niente da bruciare.

MARINA (guardando la libreria): E quelli?

IL PROFESSORE: Gli scaffali? Sono di metallo.

MARINA: No, i libri.

(Silenzio imbarazzato).

DANIEL: Non è roba da ardere, Marina.»

Marina propone l’improponibile, l’inammissibile: bruciare i libri per riscaldarsi! Non solo i bibliofili sentirebbero la pelle accapponarsi, ma anche tutti quelli che sanno bene che i libri sono gli scrigni nei quali è racchiusa l’umanità, la prova che l’Uomo è esistito, nel bene e nel male, e che ha saputo lasciare traccia di sé. Bruciare un libro significa soddisfare un futile ed assolutamente temporaneo bisogno personale (riscaldarsi) ma anche distruggere l’umanità universale... Però il freddo attanaglia le membra, e non è così facile resistere.

Il professore, ovviamente, è contrario in modo fermo a questo “immondo falò”, arrivando a proporre di bruciare Marina stessa, che «non è di alcuna utilità»!

È addirittura contrario a bruciare “Il ballo dell’osservatorio”, detestata opera dell’ancor più detestato scrittore Blatek: per quanto il professore odi questo libro non può concepire di bruciarlo... perché ha passato la vita professionale ad imbastire lezioni universitarie per criticarlo, e se quello svanisse la sua vita sarebbe stata allora inutile...

Sappiamo che “Il ballo dell’osservatorio” è «una splendida storia d’amore fra due adolescenti», i quali si conoscono ad un corso di improvvisazione. Non sappiamo altro di questo pseudobiblion, se non che - nella sua “stupidità” - è sicuramente più ricco di valore artistico della vita reale.

Per tutta la pièce il libro rischierà di essere bruciato, un’opera considerata insulsa dal professore ma che potrebbe riscaldare tutti per un po’. Cosa è più importante? Il valore “concreto”, materiale dei libri, la loro funzione nella realtà - e quindi è più che giusto sacrificarli per ottenere calore - oppure il loro valore intrinseco, slegato all’apparenza dalla realtà ma in realtà base fondante - e quindi è preferibile morire ma lasciare traccia di sé tramite questi?

Ai lettori di “Libri da ardere” scoprire la scelta dell’autrice...

In chiusura, citiamo un altro pseudobiblion della storia: “L’onore dell’orrore” di Kleinbettingen.

«Ma perché un autore dovrebbe privare i lettori della possibilità di comprare il suo libro?» si chiede il protagonista de “L’ultimo libro” (2008) di Zoran Živković. Eppure gli pseudobiblia qui di seguito presentati hanno un destino comune, oltre a quello di finire in fiamme: è il loro autore a volerli bruciare, dopo averne recuperate tutte le copie esistenti, usando anche maniere violente se i relativi proprietari si oppongono.

 

Fritz Leiber
Fritz Leiber
Franz Westen nota due libri su una scrivania. «Quello che stava sopra, rilegato in tela color grigio sporco, era aperto al frontespizio, su cui si leggeva, nella composizione grafica e nei caratteri utilitaristici che lo qualificavano come un prodotto di fine Ottocento (il cattivo lavoro di un cattivo tipografo, senza alcuna preoccupazione di ordine artistico): “Megalopolisomanzia: una nuova scienza urbanistica”, di Thibaut De Castries». Stiamo parlando di “Nostra Signora delle Tenebre” (Our Lady of Darkness, 1978) di Fritz Leiber, e lo pseudobiblion in questione è fatto risalire al 1890.

Il titolo si riferisce alla tecnica di predire il futuro mediante la lettura delle grandi città. «Predire il futuro e varie altre cose. E, a quanto pare, servirsi di questa conoscenza per fare magia. Anche se De Castries la definisce “una nuova scienza”, come se lui fosse un altro Galileo. Comunque, De Castries era molto preoccupato per gli “immensi quantitativi” di acciaio e di carta che si accumulano nelle grandi città. E per l’“olio di carbone” (gasolio) e per il gas naturale. E anche per l’elettricità».

Non si sa niente del suo autore, ma il libro è più «un diario di fogli bianchi, di carta di riso, sottile come la carta velina, ma più opaca, rilegato in tessuto di seta a coste che doveva essere color rosa tea, prima di sbiadire. Gli appunti, scritti con una stilografica dalla punta molto fine, e con un inchiostro viola, occupano circa un quarto del volume. Le altre pagine sono in bianco.»

Merita ora d’essere citato un estratto del “Megalopolisomanzia”: «In ogni periodo storico ci sono sempre state una o due città appartenenti al genere mostruoso, come Babele ovvero Babilonia, Ur-Lhassa, Ninive, Siracusa, Roma, Samarcanda, Tenochtitlan, Pechino; ma noi viviamo nell’epoca delle metropoli (o delle necropoli), in cui queste maledizioni gravide di disastri sono numerose e minacciano di congiungersi e di avviluppare il mondo nella sostanza funebre ma multipotente delle città. Abbiamo bisogno di un Pitagora Nero perché spii la maligna disposizione delle nostre mostruose città e i loro immondi canti urlati, così come il Pitagora Bianco spiava la disposizione delle sfere celesti e le loro sinfonie cristalline, venticinque secoli fa.»

Il “Megalopolisomanzia” conoscerà la potenza distruttrice del fuoco ma, come si è anticipato, sarà il suo autore a fargli da boia. «Nei suoi ultimi anni di vita, - viene raccontato a Franz - De Castries ha cambiato idea e ha cercato di rintracciarne tutte le copie, per bruciarle. E c’è riuscito! Quasi. Si sa che si è comportato in modo assai vendicativo nei confronti delle persone che si rifiutavano di cedere la loro copia. Per la verità, era un vecchio odioso e aggiungerei (anche se detesto i giudizi morali) malvagio. Comunque, quella sera non mi è sembrato il caso di dirti che possedevo quella che allora ritenevo l’unica copia superstite del libro.»

Una curiosità: il protagonista del romanzo di Leiber è convinto che il testo di De Castries fosse finito nelle mani dello scrittore e poeta Clark Ashton Smith, il quale ne avrebbe tratto spunti per i suoi lavori. Di sicuro è un gioco stuzzicante immaginare che uno libro inesistente sia finito nelle mani di un autore esistente, il quale a sua volta l’abbia usato per creare libri inesistenti. Smith, sicuramente influenzato dall’amicizia con H.P. Lovecraft, è stato autore di pseudobiblia come il famoso “Libro di Eibon”, di cui si è precedentemente parlato in questa rubrica.

 

Carlos Ruiz Zafón
Carlos Ruiz Zafón
«Ricordo ancora il mattino in cui mio padre mi fece conoscere il Cimitero dei Libri Dimenticati»: così inizia il romanzo di Carlos Ruiz Zafón, “L’ombra del vento” (La sombra del viento, 2001). L’opera dell’autore spagnolo rappresenta uno dei rari casi di pseudobiblia “europei”, e sicuramente fra i più “bibliofili”.

Come si diceva, la storia inizia quando il protagonista fa la conoscenza della più bella pseudobiblioteca dopo quella di Babele di borgesiana memoria. «Era un tempio tenebroso, un labirinto di ballatoi con scaffali altissimi zeppi di libri, un enorme alveare percorso da tunnel, scalinate, piattaforme e impalcature: una gigantesca biblioteca dalle geometrie impossibili. Guardai mio padre a bocca aperta e lui mi sorrise ammiccando. “Benvenuto nel Cimitero dei Libri Dimenticati, Daniel.”»

È assolutamente necessario lasciare la descrizione di questo posto alle parole del padre di Daniel: «Questo luogo è un mistero, Daniel, un santuario. Ogni libro, ogni volume che vedi possiede un’anima, l’anima di chi lo ha scritto e di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza. [...] Nessuno sa con certezza da quanto tempo esista o chi l’abbia creato. Ti posso solo ripetere quello che mi disse mio padre: quando una biblioteca scompare, quando una libreria chiude i battenti, quando un libro viene cancellato dall’oblio, noi, i custodi di questo luogo, facciamo in modo che arrivi qui. E qui i libri che più nessuno ricorda, i libri perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa del giorno in cui potranno tornare nelle mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito. Noi li vendiamo e li compriamo, ma in realtà i libri non ci appartengono mai. Ognuno di questi libri è stato il miglior amico di qualcuno. Adesso hanno soltanto noi, Daniel.»

Questa novella ed affascinante Biblioteca di Babele sembra nata per accogliere pseudobiblia, ed è proprio uno di questi che viene affidato alle cure del giovane Daniel: si intitola “L’ombra el vento” ed è firmato Julián Carax.

Questo «giuoco di strane ambiguità», per dirla alla Borges, fa sì che il romanzo di Zafón si inserisca in quelli che amano confondere «l’oggettivo e il soggettivo». Nella parte finale del “Ramayana”, antico testo indiano di Vaimiki, un maestro insegna a leggere a degli studenti: il maestro si chiama Vaimiki, e il libro di testo è il “Ramayana”; nell’“Amleto” di Shakespeare un re viene spodestato dal fratello e il figlio di questi organizza una rappresentazione in un cui un re viene spodestato dal fratello; nelle “Mille e una notte”, Sheherazade racconta mille storie, fra cui una storia in cui una donna di nome Sheherazade racconta mille storie... È un circolo virtuoso amato dagli autori sin dall’antichità, spiegato nel 1833 da Carlyle: «la storia universale è un infinito libro sacro che tutti gli uomini scrivono e leggono e cercano di capire, e nel quale sono scritti anch’essi.» (Ricordiamo che Thomas Carlyle è autore a sua volta di uno pseudobiblion già recensito, il “Sartor Resartus”.)

In questo “circolo virtuoso” si inserisce a meraviglia “L’ombra del vento”, romanzo che parla di un romanzo dallo stesso titolo, di una biblioteca inventata che lo contiene e del giovane ragazzo a cui è affidata la cura dell’ultima copia (in)esistente.

«Si tratta di uno dei duemilacinquecento esemplari pubblicati nel 1936 a Barcellona dalla casa editrice Cabestany. [...] Ma l’edizione originale non è questa, bensì quella uscita a Parigi nel novembre del 1935 per i tipi di Galliano & Neuval.» Queste brevi note editoriali non basteranno ad inquadrare un libro assolutamente sfuggente, che ha in più una particolarità... sta letteralmente svanendo! «“Sai quante copie come questa ci sono sul mercato?” “Migliaia, immagino.” “Nessuna” precisò Barceló. “Eccetto la tua. Tutte le altre sono state bruciate.”» Ma chi è che si è preso la briga di bruciare tutte le copie de “L’ombra del vento”?

Daniel incontra subito il misterioso “distruttore”: è Julián Carax in persona! È l’autore del libro che ha passato la vita a recuperare quasi tutte le copie della propria opera. Per farne cosa?, gli chiede il giovane protagonista: «L’unica cosa che si deve fare, Daniel» è la risposta di Carax «Bruciarli».

Il motivo che spinge Carax a cercare e bruciare i propri libri sta tutto nella storia de “L’ombra del vento”, contenuta a sua volta ne “L’ombra del vento” di Zafón, come un gioco di scatole cinesi.

Perché forse questa è la storia umana, come diceva Carlyle: un’infinita storia nella storia, a cui tutti contribuiscono... ma qui siamo in piena Accademia Pessoa, e questa è un’altra storia...