Diretto da Antonio Tibaldi e tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Lucarelli (presente nelle vesti di cosceneggiatore), Lupo Mannaro è un film misteriosamente rimasto “invisibile”. Mai uscito nelle sale cinematografiche per problemi di postproduzione e ulteriormente “congelato” per possibili passaggi in tv perché giudicato inadatto ai ritmi televisivi, il film può essere al momento recuperato solamente nell’ambito di eventi speciali, quali festival o rassegne.

Incentrato sulla caccia a un serial killer nostrano che ha come peculiarità quella di mordere le proprie vittime, Lupo Mannaro è innanzitutto un’opera sullo scontro tra due mondi differenti: da un lato, quello del commissario Romeo e della sua assistente Grazia Negro (una superba Maya Sansa), che credono in valori come “verità” e “giustizia”; dall’altro, il cinismo arrivista di un imprenditore che crede solo nell’ego e nel “fare azienda”. Ambientata nella Bologna del 1995, nell’era del deserto ideologico post-tangentopoli, la vicenda fa da specchio a due tendenze contrapposte dell’Italia recente (e attuale), ponendo sotto i riflettori il mondo senza scrupoli di una certa imprenditoria che esibisce, nel personaggio dell’ingegner Velasco, tutta l’arroganza di un ceto intoccabile e rispettabile che usa il potere per cannibalizzare la giustizia appropriandosene come può, arrivando anche a decidere, perché no, di azzannare alcune donne per il puro piacere di farlo. Il serial killer imprenditore creato dalla penna di Lucarelli e reso visivamente da Tibaldi non è dunque un semplice predatore che caccia per vendetta o per passione. La molla che lo spinge ad agire è il gioco, e il presupposto a tale azione è la sua posizione sociale, che gli garantisce l’impunità assoluta. Scegliendo le sue vittime in quanto “nulle” dal punto di vista della scala sociale, il killer dimostra inoltre come lo status sociale ed economico sia l’unico metro di giudizio a lui conosciuto.       

L’aspetto più interessante della storia risiede proprio nella mostruosa e arrogante assenza di etica nel killer, riflessa in maniera esplicita nella mostruosità dei suoi atti. Il regista ha scelto di illustrare l’agghiacciante mostruosità di un uomo che sembra porsi in uno spazio oltre qualsiasi scelta etica, perfino negativa (quale poteva essere l’elemento che animava, per esempio, l’universo opprimente e sofferente dei personaggi di un Fassbinder) attraverso un azzeccatissimo uso della camera a mano, che esalta la fisicità in maniera cruda ed esasperata incollandosi ai corpi dei personaggi e generando inquietudine. In particolare, rimane vivido nella memoria il taglio frammentato e digitale delle scene in cui vengono commessi i delitti. Rispetto al libro, il finale presenta una netta virata verso il pessimismo più nero, coerentemente al ritmo crudo e angoscioso che il regista ha decido di imprimere alle sue immagini.  

Sicuramente, un’opera notevole che rende un gran servizio al romanzo di Lucarelli accentuandone i lati più oscuri e violenti, ma soprattutto, un’opera da far scoprire a quante più persone possibili, affinché non rimanga sepolta nei magazzini di una casa di produzione ancora a lungo.

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