Nel 2010 ricorrerà un particolare annivversario: saranno 40 anni da quando è nato un genere che pochi dicono di amare ma che ha infiammato il mondo intero per decenni.

All’inizio degli anni Settanta, infatti, gli attori dei film di Hong Kong cominciarono a fare sullo schermo quello che gli uomini fanno sin dall’alba dei tempi: cominciarono cioè a picchiarsi a mani nude. Questo non vuol certo dire che nei decenni precedenti non esistessero film con violenza fisica, ma è sicuro che non esistevano film che mostrassero “solo” la violenza a mani nude, senza alcun tipo di arma, ed anzi ne facessero il fulcro della storia. Quei primi film furono i padri di un genere cinematografico chiamato “gongfupian”.

Hong Kong era già la patria di un altro genere, tipicamente asiatico, il “wuxiapian”, film di cavalieri erranti (questo il significato del nome) che se ne volano sui tetti delle case, su laghi e montagne portando sullo schermo celebri eventi storici, leggende millenarie o semplicemente romanzi popolari. Ma tutti i personaggi di questi film (la cui origine si perde nell’origine dell’arte cinematografica asiatica stessa e che non conoscono né mai conosceranno crisi in quel mercato), sono accomunati dall’assenza di quell’elemento che farà nascere i gongfupian e li renderà unici: non solo il combattimento a mani nude, ma i veri “pugni di furia” (per tradurre uno dei titoli internazionali di un famoso film con Bruce Lee, di cui si parlerà in seguito).

Non è facile descrivere cosa renda unico un genere che utilizza elementi già utilizzati altrove. La violenza, sembra scontato dirlo, esiste da quando esiste l’uomo; le arti marziali sono millenarie, le storie manieristiche di bene e male (buono e cattivo) portate sullo schermo sono quasi centenarie: perché questi elementi messi insieme dovrebbero creare un’entità nuova?

Charles Bronson in "Professione assassino"
Charles Bronson in "Professione assassino"

Negli stessi anni, in Occidente, non era raro vedere eroi dello schermo usare, sporadicamente, arti marziali asiatiche: Charles Bronson appariva con tanto di karategi nel film “Professione assassino” (The Mechanic, 1972) insieme al Maestro Takayuki Kubota (fondatore dello stile di karate Gosoku-ryu). Già anni prima lo scrittore Roger Vlatimo in Francia e Donald Hamilton negli USA facevano usare il karate ai propri personaggi, a testimonianza che la mania delle arti marziali era scoppiata molto prima dei gongfupian.

Quello che rende questo genere “nuovo”, che lo fa esplodere in tutto il mondo, è la Furia! Non si usano le arti marziali solo per difendersi, come sarebbe opportuno fare, non si usa la spada, simbolo degli uomini d’onore: si usano le nude, volgari mani per picchiare, per far male, per spezzare l’avversario. Malgrado gli sceneggiatori cerchino in tutti i modi di giustificare il protagonista, quello che gli spettatori di ogni gongfupian aspettano è il momento in cui cederà alla Furia, accantonerà l’onore ed ogni promessa fatta, e sbaraglierà con la violenza fisica il cattivo di turno. Viene convenzionalmente usato un nome per questa furia: “going berserk”. I Berserkr erano gli guerrieri vichinghi che, entrati in uno stato di furia detto berserksgangr, si lanciavano violentemente contro il nemico asserendo di non provare dolore. Il “going berserk” è proprio quel “cedere alla Furia”, quell’esplosione finale in cui il protagonista (a cui di solito hanno ucciso qualche familiare o amico) inizia il lungo combattimento finale contro il cattivo, in cui nessuno dei due pare provare dolore malgrado i ripetuti colpi mortali inferti!

Jimmy Wang Yu ne "La morte nella mano", padre dei gongfupian
Jimmy Wang Yu ne "La morte nella mano", padre dei gongfupian
Colpi violentissimi che stroncano una vita in un lampo, calci che frantumano ossa: menomazioni e colpi di violenza inaudita (quanto assolutamente improbabile) condiscono i primi film del genere. L’uso di arti marziali codificate e riconoscibili non è immediato (checché ne dicano i cartelloni pubblicitari!): darà onore e “civiltà” a tutto il genere, ma rimarrà sempre la Furia.

Una lunga (e ininterrotta) tradizione di spadaccini volanti, di uomini d’onore che hanno fatto la storia della Cina, diede vita agli inizi degli anni Settanta ad una “scheggia impazzita” basata sulla violenza fisica, bruta e volgare di mani e piedi: eppure i film appartenenti a questo genere hanno conosciuto fama mondiale per il venticinquennio successivo. Ancora oggi il cinema di Hong Kong, sebbene abbia da molto tempo drasticamente ridotto la produzione di questi film, trasformandoli comunque radicalmente, inserisce quasi sempre una scena di combattimento, quand’anche brevissima, in ogni tipo di film, come a voler testimoniare che, malgrado la sua esigua durata, il fenomeno dei gongfupian ha segnato profondamente l’immaginario cinematografico.

Ma il cinema di arti marziali non è solo asiatico. Esistono molti saggi (alcuni ottimi anche italiani) che narrano la nascita e lo sviluppo della parte cinese di questo fenomeno, ma della successiva evoluzione di solito si tace. Nel decennio che va dalla metà degli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta, infatti, il gongfupian viene preso in mano anche dalla cinematografia statunitense, che ne riscrive i dettami e i ritmi e ne sforna una produzione che satura il mercato, fino quasi all’estinsione del genere. Anche qui, superati gli anni Novanta, rimane la presenza di brevi e sparuti combattimenti a mani nude, ma la produzione di veri e propri film di arti marziali cessa quasi completamente. L’evoluzione si avrà con la Francia e la Thailandia, che con gli anni 2000 hanno mostrato di non aver niente da invidiare alla produzione di Hong Kong ed USA.

Altri paesi hanno voluto produrre propri gongfupian, dimostrando che malgrado le innumerevoli critiche il genere ha sempre appeal. Questa rubrica si propone di presentare una panoramica della produzione di film di arti marziali passati e presenti (anche se solo raramente i film moderni possono essere chiamati “di arti marziali”), cercando di dare un po’ di risalto ad un genere che (non sempre a torto) viene troppo spesso denigrato o peggio ancora ignorato.