Ne “L’isola nera” (The Black Island, 1952) August Derleth sintetizza perfettamente l’essenza del gioco degli pseudobiblia fra gli autori di racconti fantastici degli anni Trenta e Quaranta: «Il Mito di Cthulhu era scaturito da una serie di manoscritti e di fonti antichissime che pretendevano di essere obiettive, sebbene non adducessero prove per dimostrare che non si trattava solo di abilissime finzioni. Manoscritti e libri come il Necronomicon, dell'arabo pazzo Abdul Alhazred, il Cultes des Goules, opera di un eccentrico nobile francese, il conte d'Erlette; il Unauspressprechlichen Kulten di Von Junzt, individuo notoriamente degenerato che aveva vagato per l'Europa e l'Asia alla ricerca delle sopravvivenze di antichi culti; i Frammenti di Celeno; il Testo R'lyeh, il Manoscritto Pnakotico, ed altri ancora, erano serviti a scrittori contemporanei di narrativa, che vi avevano attinto a piene mani per i loro incredibili racconti dell'orrore e del mistero. Alla fine si era creata una sorta di aura di autenticità intorno a cose che al massimo costituivano un insieme di leggende e di credenze forse uniche nella storia dell'umanità.»

Degli pseudobiblia più famosi di questo periodo si è già parlato in precedenti articoli di questa rubrica: qui di seguito si presentano brevemente quei titoli minori che hanno arricchito il grande gioco degli pseudobiblia esoterici.

Nati da una collaborazione fra H.P. Lovecraft e Robert Bloch, i “Cultes des Goules” vengono attribuiti a quest’ultimo malgrado la primissima apparizione si abbia a firma del primo.

Nel giugno 1935, su “Astounding SF” esce il racconto “L’ombra fuori dal tempo” (The Shadow Out of Time) di Lovecraft: «Esistono prove tangibili - sotto forma di note a margine - del fatto che lessi attentamente libri come “Cultes des Goules” del Conte di Erlette»; mentre nel settembre dello stesso anno esce “Il divoratore giunto dalle stelle” (The Shambler from the Stars) di Bloch: «Nessun negozio del giro normale sembrava aver mai udito parlare dello spaventevole “Necronomicon”, del demoniaco “Libro di Eibon”, o dell’indicibile “Cultes des Goules”».

I due autori si alterneranno a citare più volte, in seguito, lo pseudobiblion, anche se sempre accoppiato ad altri titoli più famosi, come il “Necronomicon” o il “Libro di Eibon”. «L’occultismo è un ottimo argomento di studio, ma gli spaventosi arcani del Cultes des Goules [...] non contribuiscono ad un sano stato mentale» scrive Bloch ne “Il demone oscuro” (The Dark Demon, 1936).

Al gioco citazionistico partecipa attivamente August Derleth, che più dei suoi autori spiegherà cosa siano i “Culti”. Nel suo racconto “La gola oltre Salapunco” (The Testament of Claiborne Boyd, 1949) scopriamo che in essi c’è «la conferma della leggenda incredibile dei Primi Dei e il racconto del loro esilio da Betelgeuse al quale furono condannati dai Grandi Antichi. Si parlava di Azathoth, il Dio cieco e idiota, di Yog-Sothoth, il Tutto in Uno e l'Uno in Tutto, del Grande Cthulhu che sogna nella sua dimora di R’lyeh sommersa». Citerà ancora “Culti”, come ne “Il custode della chiave” (The Keeper of the Key, 1951), così come li cita in seguito Brian Lumley nel suo “La saga di Titus Crow” (The Burrowers Beneath, 1974).

Ricostruzione di una pagina dei "Manoscritti Pnakotici"
Ricostruzione di una pagina dei "Manoscritti Pnakotici"

I “Manoscritti Pnakotici” nascono dall’immaginazione di Lovecraft nel 1927, quando scrive “Alla ricerca del misterioso Kadath” (The Unknown Kadath), racconto che però rimarrà inedito per tutta la vita dell’autore (uscirà infatti solo nel 1943).

«Uno Zoog molto vecchio ricordò una cosa che gli altri non sapevano, e disse che nella città di Ulthar, oltre il fiume Skai, era rimasta l’ultima copia di quegli incredibili “Manoscritti Pnakotici” scritti da uomini vissuti in regni boreali dimenticati e giunti nella Terra dei Sogni quando gli irsuti cannibali Gnophkenhs vinsero la città di Olathoe dai Cento Templi e trucidarono tutti gli eroi della Terra di Lomar. Quei manoscritti, aggiunse, dicevano molte cose circa gli dèi, e d’altra parte, ad Ulthar c’erano uomini che avevano visto i segni degli dèi, e c’era perfino un vecchio sacerdote che aveva scalato una grande montagna per vederli ballare sotto la luna piena. Lui non c’era riuscito, ma il suo compagno era arrivato sulla vetta, ed era poi morto misteriosamente».

In seguito lo stesso Lovecraft citerà più volte i manoscritti. «Alcuni studiosi dell’occulto avanzano l’ipotesi che l’origine dei frammentari “Manoscritti pnakotici” risalga a prima del Pleistocene e che gli adoratori di Tsathoggua non fossero umani, come del resto Tsathoggua stesso» (“Le montagne della follia”, At the Mountains of Madness, 1931); li si ritrovano anche ne “L’ombra fuori del tempo” e “Colui che sussurrava nelle tenebre”.

Come sempre, nel gioco di citazioni entrarono altri autori.

August Derleth li cita al singolare sia ne “La casa in Curwen Street” (The Trail of Cthulhu, 1944) «Erano volumi vari, il manoscritto della prima parte del suo secondo libro, antichi testi, appunti presi dalle copie in prestito del “Manoscritto Pnakotico”», che ne “Il custode della chiave” (1951). Clark Ashton Smith usa l’espressione «Pentagramma Pnakotico» nel suo “Le scale della cripta” (The Stairs in the Crypt, 1977), mentre Gary Myers, nel suo “Xiurhn” (id., 1975), racconta che «La verità e altre nozioni pertinenti si potevano leggere [...] negli ammuffiti Manoscritti Pnakotici, nei quali sono scritte cose che per gli uomini sarebbe meglio non sapere, ma egli non voleva pagare il prezzo del Guardiano per sfogliare quel ripugnante volume. Meno pericoloso sarebbe stato consultare chi avesse già pagato il prezzo del Guardiano.»

In seguito sono spesso citati di sfuggita, e comunque sempre insieme ad altri pseudobiblia più famosi. Nel 1974 il protagonista de “La saga di Titus Crow” (The Burrowers Beneath) ha letto «le parti ancora integre dei Manoscritti Pnakotici in una copia fotostatica del British Museum, alla quale era accluso un documento frammentario che parlava di una “Grande Razza”, da considerare preistorica perfino nella preistoria». Nel 1981 li ritroviamo citati sia ne “La Casa del Tempio” (The House of the Temple) di Brian Lumley che ne “La Fortezza” (The Keep) di F. Paul Wilson.

I “Sette Libri Criptici” di Hsan sono creati da Lovecraft insieme ai “Manoscritti pnakotici” nel racconto “Alla ricerca del misterioso Kadath” scirtto nel 1927.

«Carter, benché deluso dagli scoraggianti consigli di Atal e dal magro aiuto che, come ormai sapeva, avrebbe trovato nei “Manoscritti pnakotici” e nei “Sette Libri Criptici” di Hsan, non disperò completamente».

Solo un’altra citazione si ha di questi libri, sempre da Lovecraft: «Ad Ulthar, la città oltre il fiume Skai, viveva una volta un vecchio che voleva vedere a tutti i costi gli dèi della terra; costui conosceva profondamente i sette libri criptici di Hsan ed aveva familiarità con i “Manoscritti pnakotici” della lontanissima e gelida Lomar. Si chiamava Barzai il Saggio e gli abitanti del borgo raccontano che la sera della strana eclisse salisse sul picco di una montagna» (“Gli altri dèi”, The Other Gods, 1934)

La prima apparizione dei “Canti di Dhol” si ha nel racconto “L’orrore nel museo” (The Horror in the Museum, 1932), ideato da Hazel Heald ma in realtà scritto dall’amico Lovecraft.  «Rogers aveva affermato di aver letto libri mostruosi e semi-favolosi come i frammenti pnakotici e i canti dei Dhol attribuiti alla malefica e inumana terra di Leng».

Verranno citati in seguito soprattutto da August Derleth e dal nostrano Domenico Cammarota, come nel suo “Il caos strisciante” (1986): «Avevo imparato a memoria i Canti dei Dhols trascritti fedelmente da Isabella, e questo forse poteva bastare.»

Nel dicembre del 1934 su “Weird Tales” appare il racconto “Xeethra” di Clark Ashton Smith, in cui si fa per la prima volta menzione del “Testamento di Carnamagos”. Smith, va ricordato, iniziò la propria carriera letteraria come poeta, e in questo racconto cede alla tentazione di usare come epigrafe una poesia tratta dal Carnamagos: «Sottili e molteplici sono le reti del Demone, che / segue i suoi eletti dalla nascita alla morte e dalla / morte alla nascita, attraverso molte vite.»

L’unica altra citazione è dello stesso autore l’anno successivo, quando nel racconto “Colui che cammina nella polvere” (o “Il dio della polvere”), viene riportata un’altra citazione dal “Testamento”. «Quei passaggi del “Testamento di Carnamagos”, su cui aveva ponderato con meraviglia e spavento, facevano certo impressione, ma erano rilevanti solo per l’orrore evocato da qualche folle stregone dell’antichità»

Sappiamo che il libro, «in cuoio grezzo e dai fermagli in ossa umane», è stato scritto dal «saggio e malefico veggente Carnamagos, ritrovato migliaia di anni prima in qualche tomba greco-bactriana e trascritto da un monaco apostata, in greco, col sangue di qualche mostro da incubo.»

Uscito nel 1940 sulle pagine di “Polaris”, il racconto “L’albero sulla collina” porta la firma di Duane W. Rimel, ma in realtà è scritto da H.P. Lovecraft.

Impressionati dalla presenza di un’ombra anomala in una foto scattata, i protagonisti della storia consultano un libro molto particolare: «una delle prime traduzioni inglesi delle “Cronache di Nath”, scritta da Rudolf Yergler, un antico mistico ed alchimista tedesco che fece sua parte del sapere di Ermete Trismegisto, il venerabile stregone egizio». Il riferimento a quel Trismegisto considerato il padre dell’alchimia, e protagonista di forse troppe speculazioni sull’occultismo, dà allo pseudobiblion un fascino antico e soprattutto “magico”.

Le “Cronache” sono d’aiuto: «“E avvenne che nell’Anno de lo Capro Nero giugnesse in Nath un’ombra che non doveva stare su la Terra, fatta sì che niuno mai l’avea vista pria nel nostro dolce mondo”» e seguono istruzioni su come comportarsi con questa “ombra anomala” per evitare che l’intero universo finisca in grave pericolo!

August Derleth
August Derleth

Nel 1944 esce “La casa in Curven Street” di August Derleth che, oltre a citare i già noti pseudobiblia («i Grandi Antichi; [...] il “Cults des Goules” del Conte D’Erlette, il “Manoscritto Pnakotico”, il “Libor Ivonis”, e il “Unaussprechlichen Kulten” di Von Junzt»), partecipa al “gioco” con un personale titolo: il “Testo R’lyeh”.

R’lyeh è il nome che H.P. Lovecraft dà alla città subacquea da cui deriva il sacerdote-stregone Cthulhu, nel racconto “Il richiamo di Cthulhu” (1926), personaggio che darà il via ad un intero filone, prodigo di autori, di titoli e soprattutto di pseudobiblia!

Derleth, amico e collega di Lovecraft, ipotizza uno studio su questa città. «appresi che il Dr. Shrewsbury era uno studioso di misticismo, esperto di scienze occulte, professore di filosofia, nonché un’autorità su tutto quanto concerneva il mito e la religione dei popoli antichi. Il suo libro [...] portava il minaccioso titolo “Una ricerca sui modelli del mito dei moderni primitivi con particolare riferimento al Testo R’lyeh”». Ma gli interessi del dottor Shrewsbury non si limitano ai miti: «Si interessava però soprattutto al linguaggio R’lyehiano. Nei passaggi meno oscuri del “Necronomicon” e nello spaventoso “Testo R’lyeh”, c’erano alcuni accenni i quali sembravano indicare che si stava avvicinando il tempo atteso per la rinascita di Cthulhu».

Ne “L’occhio dal cielo”, o “La vedetta celeste” (The Watcher from the Sky, 1945) Derleth riporta addirittura un estratto dal “Testo”: «Il Grande Cthulhu risorgerà da R’lyeh, Hastur l’Indicibile ritornerà dalla stella nera che si trova nelle Iadi presso Aldebaran... Nyarlathotep muggirà eternamente nell’oscurità che ha scelto come dimora, Shub-Niggurath potrà generare i suoi mille figli....»

Nel 1974 Brian Lumley, nel suo già citato “La saga di Titus Crow”, rivisitando tutti i miti di Cthulhu non può esimersi dal citare il “Testo di R’lyeh”, «ritenuto opera di alcuni servi del Grande Cthulhu stesso.»

Merita una menzione finale l’esclamazione «Iä R’lyeh! Lode al signore Tsathoggua!», lanciata da Lovecraft nel 1932 nel racconto “L’uomo di pietra” (The Man of Stone).

Il nome Celeno deriva sicuramente da Lovecraft, che lo usa in “L’orrore di Dunwich” (The Dunwich Horror), ma “I frammenti di Celeno” è uno pseudobiblion che si ritrova solo nel racconto “La casa in Curwen Street” (The Trail of Cthulhu, 1944) di August Derleth.

Inventato da Henry Kuttner nel 1939 con il racconto “Bells of Horror”, il “Libro di Iod” è fra i meno conosciuti degli pseudobiblia esoterici, in quanto la quasi totalità dei racconti che ne parlano è inedita in Italia. Al gioco citazionistico partecipano autori prestigiosi come Lin Carter, Robert M. Price e tanti altri. Nel 1995 nei paesi anglosassoni esce l’antologia “The Book of Iod” che raccoglie i migliori di detti racconti.

Malgrado sia di molto successivo al periodo preso in considerazione, vogliamo chiudere con la Pergamena di Morloc, che Clark Ashton Smith, non pago degli pseudobiblia già ideati, crea nel 1975 rendendola protagonista dell’omonimo racconto (The Scroll of Morloc) uscito su “Fantastic” dell’ottobre di quell’anno.

L’ambientazione è sempre in quell’Hyperborea tanto cara all’autore, quel mondo passato pre-umano in cui un essere vuole impadronirsi appunto della Pergamena di Morloc, un preziosissimo documento che contiene antichi e misteriosi riti magici. La formula che l’essere vi leggerà è complessa, «Wza-y’ei! Wza-y’ei! Y’kaa haa bho-ii», ma l’effetto è semplice: una infernale trasformazione nella razza che scrisse anticamente quella pergamena!

Il racconto arriva tardi in Italia, nel 1992, all’interno dell’antologia “Fantasy Inverno 1992” (speciale della collana Urania Fantasy): è l’unica edizione esistente in italiano!