Il giallo arrivò in fondo. Lo scrittore non riuscì a firmarlo.

L’idea di Claudio Nannicini, presuntuosi 40 anni su appena un metro e settanta, due romanzi polizieschi pubblicati, qualche racconto su riviste dai nomi evanescenti, per motivi di sopravvivenza pubblicitario, in quanto presunto creativo, nell’agenzia A&D, Advertising & Design, era ambientare un thriller in mezzo ai pendolari.

Agatha Christie tra Vicchio e Firenze. L’esotismo del Mugello, hai presente. La Faentina sarebbe diventata l’Orient Express. Vaglia, Vienna. Pian del Mugnone, i Balcani. Campo di Marte, Istambul. La colazione al sacco, il wagon restaurant. I graffiti dei writers, la scritta in oro “Thomas Cook & Co.”.

Grottesco.

E, poi, il “locale” 13984 era fantastico, addirittura un classico: luogo chiuso, ma in movimento, tutti che si conoscono. Più o meno. Tutti sospettabili. Tutti aspiranti vittime o aspiranti assassini.

Ogni giorno, due volte il giorno, andata e ritorno, sempre gli stessi.

Ma un giorno c’è lui, l’assassino.

Chi?

Claudio Nannicini non lo sapeva ancora, ma non si preoccupava. Un assassino si trova sempre. La vittima, ancora più facile. In giro c’ è un sacco di gente che vale la pena di ammazzare.

Decise di fare un sopralluogo, per conoscere i luoghi, respirare le atmosfere, spiare la gente. I pendolari, cioè. Così, tanto per fare lo scrittore all’americana. Perché, lui, un’idea sui pendolari, ce l’aveva già.

I pendolari per Claudio Nannicini scrittore: categoria a parte, non solo nell’universo del lavoro. Antropologicamente a parte. Forse, una categoria dello spirito. Sacrificio, noia, albe nere, parole crociate, binari fredde parallele della vita, due ore e passa di scossoni il giorno, agitare bene sulle traversine prima e dopo l’uso. Pendolari, extracomunitari oscillanti tra una patria pagata con il mutuo e una Pantelleria quotidiana.

E ancora: sogni erotici interrotti tra le lenzuola e ricercati invano nel compartimento in sky maròn; occhiate allusive incrociate tra un compartimento e l’altro; turgori e umidità improvvisi. E sempre lì, sulla panchina, a battere i piedi per vincere il freddo. La mattina con gli occhi rossi perché ancora addormentati; la sera con gli occhi più rossi per le troppe ore al computer. E un sogno in comune: finalmente a casa, in poltrona e chiudere gli occhi troppo rossi davanti alla televisione accesa.

I pendolari: ogni giorno, due volte il giorno, un’ora di sospensione dal tempo, dalla famiglia, dalle responsabilità. Dalla vita. Situazione assolutamente invidiabile: come solo nelle sale d’aspetto, sulle poltrone dei barbieri, nelle file alla posta. Momenti assolutamente creativi. Ogni giorno, due volte al di’.

Che cosa creavano i pendolari?

Quel 10 di luglio che Claudio Nannicini si trovò sul locale 13984, a Firenze il cielo era di quelli che Paolo Conte avrebbe definito un sudario. Lo sguardo scivolava sulle cortine di colline che sfumavano nel giallo-verde dell’ossido di carbonio, sulla macchia bianca che era il sole nel grigio sporco del cielo, sui cascinali restaurati e ridipinti con la vernice plastica che non invecchia mai, sul lontano fantasma della cupola del Brunelleschi immersa nello smog. Roba che al Cairo nelle stesse ore sembrava di stare in Svizzera. In riva all’Arno c’erano 42 gradi all’ombra, un tasso di umidità pari a quello registrabile dentro il loculo di una doccia appena usata e la tradizionale caligine tra il verde e il marroncino sopra tutta la città.

Il locale 13984 stava per arrivare in vista di quel paradiso, quando Claudio Nannicini finalmente individuò la sua vittima.

La barba di una settimana, tipo brigatista storico, gli abiti da finto fattore di campagna, i capelli un po’ troppo lunghi e un po’ troppo bisognosi di shampoo lo qualificavano, agli occhi dello scrittore Claudio Nannicini, come sicuro dipendente di un ente pubblico. Comune, Provincia, Regione. Forse un’Asl. Magari, parastatale. Poco importava.

Importava ucciderlo, il movente l’ avrebbe inventato poi.

Come? Come si uccide un pendolare dentro un regionale e la si fa franca? Immaginare un omicidio, era la parte del lavoro che divertiva di più Nannicini. Bisognava essere credibili, prevedere tutto. Come un vero assassino.

Allora, chiaro, non avrebbe potuto ammazzarlo lì, nel vagone, tra gli altri viaggiatori.

Il gabinetto era l’ unico posto chiuso, l’unico luogo vietato agli occhi dei pendolari. Il gabinetto, patibolo perfetto, almeno su un regionale.

Ci andavano tutti, i pendolari, quasi rispettando un ordine stabilito in lunghe mattine di viaggi antelucani, quando il treno cominciava a sentire l’odore della stazione di arrivo.

Bastava aspettare il turno della vittima parastatale e poi fare la prova generale.

Gli occhi semichiusi, Claudio Nannicini si era immaginato tutto. Aveva visto ogni sequenza, come al cine. Il parastatale si alzava e andava al gabinetto. Lui lo seguiva e si metteva sulla piattaforma davanti alla porta fissando la mezza luna rossa sotto la maniglia che indicava <occupato>. La mano nella tasca stringeva l’ immaginario coltello dalla lama affilata. Lo sciacquone l’avrebbe avvertito che il momento era arrivato. La mezzaluna rossa sarebbe diventata verde. <Libero>. La porta si sarebbe aperta. Verso l’interno del gabinetto.

In quel preciso momento sarebbe scattata la prima, fulminea fase dell’omicidio fantasticato da Claudio Nannicini.

Ed effettivamente a quel punto la “vittima” si alzò e percorse in equilibrio precario il corridoio del vagone per raggiungere il gabinetto. Quando scomparve dietro la porta che immetteva sulla piattaforma, anche Claudio Nannicini si alzò e lo seguì.

Voleva controllare che il suo piano potesse funzionare. Si mise davanti alla porta con la piccola mezzaluna rossa sotto la maniglia e invece di un coltello strinse la penna che aveva nella tasca della giacca.

Dentro al gabinetto la “vittima” cercava di svegliarsi gettandosi acqua sul viso. Si guardò allo specchio: Libero Picchiani, 52 anni, per niente parastatale. Tecnico anatomopatologo all’Istituto di Medicina legale di Careggi.

Picchiani si sorprese di riconoscersi. Si sorprese di continuare a vivere. Per quanti sforzi avesse fatto, non aveva trovato in più di mezzo secolo un motivo valido che giustificasse quell’ostinazione. Libero Picchiani era un tecnico anatomopatologo molto depresso.

Aveva odiato le due ore di regionale quotidiane, una la mattina, l’altra la sera. Lo costringevano a pensare, a stare solo con se stesso. Solo che lui aveva paura di stare con se stesso. Fino a quando aveva trovato un giochetto mentale. Come immaginava lo scrittore Claudio Nannicini, anche lui era un pendolare che creava. Ogni mattina, ogni sera.

Libero Picchiani aveva perfezionato la sua creatura, l’aveva limata, depurata di ogni possibile difetto. Da mesi ormai la contemplava nella sua mente e la cosa lo divertiva.

Tirò lo sciacquone e diede un brivido a Claudio Nannicini che se ne stava dall’altra parte della porta. Lo scrittore strinse ancora di più la penna nella tasca.

La mezzaluna rossa divenne verde. <Libero>.

La porta si scostò verso l’interno. Apparve il viso scuro di Libero Picchiani.

A quel punto Claudio Nannicini aveva immaginato che con una mossa decisa e violenta, l’avrebbe spinto indietro nel gabinetto. Avrebbe richiuso la porta e lì, in quel metro cubo, avrebbe tagliato la gola alla sua vittima. Lo sferragliare del treno avrebbe coperto il grido di dolore e di spavento del parastatale.

Invece sorrise allo sconosciuto e si scansò un po’ per farlo uscire più comodamente.

Si sentì afferrare il bavero da una morsa d’acciaio. Lo sconosciuto lo tirò dentro il gabinetto e, mentre con un braccio gli serrava la gola, con l’altro chiuse la porta. Lo scrittore fu risucchiato dentro al suo giallo come una supernova in un buco nero. Tutto in frazioni di secondo. Il terrore piombò addosso a Claudio Nannicini come l'ala scura di un grosso uccello. Le pupille nere galleggiarono nel bianco degli occhi, la bocca non ce la fece a gridare. La testa finì dentro un involucro di plastica   trasparente, una mano guantata schiacciò le sue labbra contro i denti, i polmoni scoppiarono. Un gesto rapido, sicuro, professionale, da tecnico anatomopatologo e uno stretto coltello scivolò dentro il cappuccio trasparente. Appena una sensazione glaciale sul collo. Poi, un dolore acuto che gli fece ritirare il fiato.

La plastica rientrò dentro la bocca spalancata e si tinse di rosso. Un fiotto di sangue spruzzò verso l'alto e fu catturato dal cappuccio, ricadde sui capelli neri dello scrittore, sulle lenti degli occhiali. Con un gesto secco Libero Picchiani avvolse i bordi del sacchetto con una cordicella per stringerlo attorno al collo di Claudio Nannicini. La testa rimase sigillata nella plastica, neanche una goccia di sangue scivolò di fuori.

Di colpo Claudio Nannicini cedette e si afflosciò. Forse ebbe il tempo di capire che cosa erano capaci di creare i pendolari.

Libero Picchiani ebbe la conferma che per tirare avanti aveva bisogno, almeno ogni tanto, di un'emozione forte.

Dal finestrino semiaperto del gabinetto gettò via il coltello e i guanti. Tornò a guardarsi allo specchio: visibilmente stava meglio.

Controllò le mani e il viso: neanche una sfumatura di sangue. I vestiti, inappuntabili. Era andato tutto come previsto. Il delitto costruito, immaginato e contemplato per settimane si era svolto come doveva. Aveva solo dovuto aspettare la vittima perfetta: il viaggiatore non pendolare. L'intruso. Il diverso. Quello che non apparteneva alla tribù. Quella mattina era salito Claudio Nannicini, il nome Libero Picchiani l'avrebbe letto il giorno dopo sul giornale. Nello stesso vagone.

Restava il problema della morale. Dell'anima, diceva qualcuno. Ma lui, sempre viaggiando sul regionale 13984, il problema l'aveva risolto da tempo.

Di che potrebbe soffrire un'anima? Di valori sbagliati, della loro assenza, di quella roba lì, insomma. In effetti, aveva diagnosticato Picchiani, di valori, lui, ne aveva pochi.

Tornò nel vagone e risedette al suo posto. Il treno si avvicina alla stazione di Santa Maria Novella.

Nella fila opposta di poltrone spiccava il posto vuoto di Claudio Nannicini, sottolineato dal giornale ancora aperto sul sedile accanto e dal pacchetto di sigarette con accendino sulla tavoletta. Picchiani ebbe l'impressione che tutti gli altri pendolari avvertissero quell'assenza e si dessero da fare per mostrare indifferenza. Chi guardava ostinatamente fuori del finestrino, chi già si preparava a scendere, chi si nascondeva dietro le pagine del giornale ormai letto da cima a fondo. Era come se tutti sapessero e nessuno si scandalizzasse. Non si viene a osservare i pendolari come un entomologo gli insetti. È sconveniente. È pericoloso.

Poco prima dell'ingresso nella stazione si sentì l'urlo di una donna provenire dalla piattaforma dove, nel gabinetto, era il cadavere di Claudio Nannicini. Il delitto era stato scoperto.

Il regionale 13984 fu deviato su un binario morto. Le porte restarono chiuse. Nessuno poteva scendere. L'assassino doveva per forza essere sul treno. Proprio come sull'Orient Express di Agatha Christie.

Gli interrogatori dei pendolari non portarono a niente, non furono di alcun aiuto al commissario Diego Intravaia della Polfer. Nessuno aveva notato qualcosa di anomalo, nessuno aveva visto qualcuno andare al gabinetto subito prima o subito dopo il Nannicini.

Quella sera, sul regionale 13984 che andava in direzione opposta, verso Vicchio, Libero Picchiani e gli altri pendolari, come al solito, approfittarono dell'ora di sospensione dalla vita per ricominciare a creare.

Mario Spezi è autore di libri importanti, tra cui - elencando solo gli ultimi - Dolci colline di sangue. Il romanzo sul mostro di Firenze  (Sonzogno 2006); The Monster of Florence (2008), scritto insieme a Douglas Preston, bestseller negli Stati Uniti, rimasto per otto settimane fra i top ten e che sarà portato sugli schermi da Tom Cruise; Un indagine estrema del commissario Lupo Belacqua (Barbera Editore 2009). Altri suoi libri sono stati pubblicati in Italia da Marco Tropea, Hobby&Work, Aliberti. Ha lavorato per il "New Yorker", "L'Espresso",  "L'Europeo", "Panorama", "Gente", "La Nazione", "Il Corriere della Sera", nonché per la Rai e per Mediaset.