C’era una volta un tempo in cui esisteva solo la tv di stato e per di più solo in bianco e nero. Non che la programmazione fosse eccezionale però si facevano dei cicli ‘ragionati’ sul cinema che permettevano a chi si stava formando un gusto suo di conoscere autori fino a quel momento sconosciuti. Fu così che scoprii Jean Pierre Melville. Il primo approccio fu con Le Samourai che, incredibilmente, nella versione italiana s’intitolava Frank Costello, faccia d’angelo. Bizzarria della produzione, tanto più che nell’originale Alain Delon interpretava un killer che si chiamava... Jeff. e Jeff è il nome che John Woo (cultore del cinema gangsteristico francese che ha poi ricuci nato in salsa soja) ha dato a Chow Yun fat in The Killer, una delle pellicole che più mi ha influenzato negli anni 90. Il film però era un gioiello di perfezione. La Parigi notturna, la solitudine interiore del protagonista espressa nei silenzi, le lunghe sequenze degli interni del suo appartamento rotte sol oda rumori banali, consueti. Poi c’era l’atmosfera dei night, il rapporto con gli altri del Milieu, con la pianista di colore giocato su sguardi e silenzi. La sfida con la polizia, il perfetto meccanismo di un artigiano del crimine, alla fine schiacciato dalla sua stessa abilità di certo fu un riferimento non solo per me nella costruzione della mitologia del Killer. Tony Arzenta, curioso poliziottesco interpretato dallo stesso Delon tra l’Italia e Copenhagen e moltissimi altri film sino a Professione: Assassino ne colgono quello che, a al di là degli ambienti, dell’intreccio,è il nocciolo delle vicende sugli assassini professionisti. La solitudine. Il ciclo mi aprì una nuova dimensione narrativa. Devo ammettere che Le silince dea la mer scritto da Cocteau all’epoca non mi fece grossa impressione. Il mio film preferito resta I senza nome(Le Cercle Rouge che si riferisce a un detto di Confucio secondo cui le storie di uomini destinati a incontrarsi sono inserite in un cerchio rosso e da lì non scappano.) mi sembra di aver reso omaggio a questo film in diverse occasioni, in particolare nel racconto Non sparate sulla donna ragno uscito sull’antologia BUGS edita da BD che fa parte di un mio progetto personale che è appunto le Storie di Gangland, intesa come Milano criminale. Il fatto che il killer protagonista di quel racconto si facci chiamare Senzanome è emblematico. Negli anni ho recuperato un po’ tutta l’opera di Melville che ho ristudiato e apprezzato con occhi diversi. Le Doulos (Lo spione) Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide (Le deuxieme Souffle dal romanzo di Josè Giovanni di cui abbiamo già parlato), L’armata degli eroi, La notte e la città sono tutti film che hanno contribuito a costruire parte della mia mitologia sulla mala francese sempre più legata a quella italiana, almeno nel modo in cui negli anni ho sviluppato questo filone della mia narrativa. Che il cinema, con volti, immagini sensazioni in movimento abbia avuto un ruolo fondamentale nell’organizzazione di alcuni dei miei processi creativi l’ho già rilevato. Non mi stupisce che un autore da me molto amato e vicinissimo,il già citato John Woo, abbia ricavato le medesime sensazioni quando, da ragazzo, studiava i classici europei alla scuola di cinema di Hong Kong. Ovviamente Woo li ha reinterpretati adattandoli alla sua realtà,quella della malavita di Hong Kong che ha caratteristiche un po’ diverse da quella europea. Per dirla tutta i gangster delle triadi cominciarono a vestirsi con lo spolverino, gli occhiali scuri e lo stecchino in bocca dopo aver visto A Better Tomorrow e non prima. Io a mia volta avevo già costruito e assorbito tutto un immaginario derivato dal cinema francese sulla mala e, scoperto quello di Woo ne ho cucinata una versione se non proprio italiana almeno europea e in forma scritta invece che filmata. Però il fascino dell’immagine sul grande schermo resta. Negli ultimi anni sicuramente il lavoro di Oliver Marchall è stato quello che ho sentito più vicino. Adesso Marchall lo conoscono un po’ tutti ma, devo ammettere, che quello che preferisco è quello degli esordi. Di Gangster, una storia che ho ripreso in DVD, non so neanche se sia uscita al cinema. Un piccolo intrigo perfetto, violento, ottimante reso. Forse non ottimamente doppiato perché anche se vantiamo la miglior tradizione di doppiaggio del mondo, certe pellicole che non sono dei blockbuster risentono di un lavoro frettoloso, televisivo che appiattisce tutto. Già che siamo in argomento è il problema di cui soffrono le versioni italiane uscite direttamente per l ‘home video dei primi e migliori film di Woo(The Killer, A Bullet In The Head e i due A Better Tomorrow). Marchall ha acquisito notorietà con 36 che si avvale di una coppia di antagonisti d’eccezione. Daniel Auteil (che già avevo scoperto in La ragazza e il lanciatore di coltelli) e Depardieu che non ha bisogno di presentazioni anche se mi piace citate un vecchio noir, La scelta delle armi con Montand, la Deneuve e lo stesso Depardieu che, all’epoca, faceva il giovane ruggente. Qui, invece, lui e Auteil sono vecchi rottami. Poliziotti reduci da una vita violenta sulle strade, feroci e ingenui al tempo stesso. Un tempo amici ora rivali nel lavoro e nell’amore. Auteil dovrebbe essere il buono ma ha fregato la moglie a Depardieu che non gliel’ha mai perdonata. Si affrontano in una Parigi moderna luccicante di fari stroboscopici di locali notturni, ma anche livida nei lunghi boulevard della banlieue. Danno la caccia a rapinatori di furgoni blindati, una banda di pazzi sanguinari che sembrano soldati in una guerra urbana. E sullo sfondo pestaggi di prostitute, gang multietniche, malavitosi rosi dalla sete di vendetta, prostitute slave, furiosi pestaggi, il tutto dominato dalla politica che copre e infanga a seconda delle necessità. 36 è sicuramente uno dei film più completi e riusciti di Marchall. Manca forse un po’ della spontaneità di Gangster, tutto è troppo perfettamente congeniato ma, sotto alcuni profili, non è un difetto.

L’ultima missione (risibile titolo italiano per MR73 ossia Manhurin modello 1973, l’arma classica della polizia francese negli anni ’70)è un film crepuscolare, ottimamente diretto e fotografato in una marsiglia che rispecchia, un po’, il mood di izzo. Di nuovo Auteil vi appare come poliziotto problematico, incastrato dal destino in una situazione insostenibile e spinto da qualcosa che gli brucia dentro a una soluzione... insostenibile. Quando l’ho visto al cinema non mi ha convinto del tutto, forse perché reduce da 36 mi aspettavo qualcosa di più duro. Ma una seconda e più meditata visione mi ha portato all’attenzione particolari, atmosfere decisamente intriganti anche se, a volte un po’ lontane dal mio sentire. Del resto, il cinema, la lettura, i luoghi reali perfino, sono motivo di ispirazione ma necessitano di una revisione, di essere adattati alla sensibilità dell’autore. Da tutto questo universo cui Pietrafredda è sicuramente debitore cosa si può trarre alla fine? Un’idea europea, più che italiana o francese, o meglio mediterranea del noir, della storia di banditi che si arriva ad allungare sulla costa spagnola al notevole Box 507 di Enrique Urbizu, ai racconti di Juan Madrid( Cronache di Madrid in nero e Un bacio da un amico, Alacràn in particolare) e certamente al cinema di Di Leo(La trilogia del Milieu) e ai suoi legami con Scerbanenco. Un’alternativa che non nega la strada tracciata dagli autori anglosassoni ma che, almeno per quel che riguarda la mia produzione più recente, cerca di trovare una strada sua. Se non originale almeno personale.