Stephen Collins, membro del congresso statunitense, vede la sua carriera politica compromessa dalla morte apparentemente casuale di una sua stretta collaboratrice. Sul caso inizia ad indagare Cal McCaffrey, giornalista amico dello stesso Collins…

Per buoni tre quarti State of Play quasi riesce a non far rimpiangere I tre giorni del Condor, il che non è poco, e perlomeno in una sequenza (quella del garage…) sembra citarlo direttamente soprattutto nello stratagemma che la vittima sacrificale adotta per sfuggire al killer in agguato. Al posto dell’impaurito Redford del film di Pollack, qui c’è la stazza oversize di Russel Crowe, capace lo stesso di iniettare nel suo personaggio dosi massicce di cinico disincanto e competenza.

Per il resto il film, regia ultravalida di Kevin Macdonald e sceneggiatura di un terzetto niente male, ovvero Matthew Michael Carnaham (Leoni per agnelli), Tony Gilroy (Michael Clayton) Billy Ray (Breach - L'infiltrato), si candida a diventare il film “obamiano” per eccellenza, ma non solo. Che lo sia, obamiano cioè, è evidente, soprattutto per come tratta e per come risolve, a modo suo si intende, cioè con i mezzi propri del cinema, i conti con le agenzie private per la sicurezza che all’ombra dei due mandati bushisti hanno proliferato a loro piacimento giustificate in larga misura dalla lotta contro il terrore, con l’opinione pubblica presa in mezzo tra la sponda politica da un lato, con un congruo numero di senatori del congresso tutti immancabilmente corrotti (siamo pur sempre a Washington D.C., dove il saggio racconta “che sì, i mobili sono finti, ma gli spigoli sono veri”…) e i miliardi di dollari che circolano come i bisturi in sala operatoria.

Ma State of Play è anche e soprattutto, e guai a non dedicargli la dovuta attenzione, una dichiarazione d’amore di bruciante attualità nei confronti della carta stampata sempre più minacciata, nel bene e nel male, dal web, un’appassionata difesa di ciò che un giornalista volenteroso, armato di penna e taccuino e con a disposizione un congruo numero di “gole profonde” riesce ancora a fare per tenere su la baracca del giornalismo di denuncia. Peccato il finale con un colpo di scena che di colpo, e di scena, ha veramente poco…

A Jeff Daniels, riciclatosi alla grande nei panni del cattivo, la battuta più cattiva (per l’appunto…) del film: “Resterai senza lavoro prima che il Diavolo abbia finito di pronunciare il tuo nome”…

Guai a chi esce sui titoli di coda perché si perderebbe il passaggio dell’articolo che smaschera i potenti dal virtuale del PC al reale della carta.