Le direttrici di collana:

Risponde Antonella Beccaria

Avete scelto di chiamare questa collana “Senza Finzione”. Il nome è esplicito, ti chiedo comunque di evidenziarne gli intenti.

Ciò che è entrato ed entrerà in questa collana non per forza deve avere la forma del saggio o dell'approfondimento d'inchiesta, possono rientrarvi anche romanzi, come nel caso di “Disonora il padre e la madre”. I requisiti, se così vogliamo chiamarli, è che le storie proposte siano realmente accadute e che in qualche modo siano raccontate con un'ottica da insider: il caso è esplicito nel libro “Le tigri di Telecom”, ma non decade nemmeno con il lavoro di Simona Mammano per “Assalto alla Diaz” (un poliziotto che indaga un realtà all'interno della quale è calato) o del titolo previsto per settembre, “C'era una volta l'intercettazione” del magistrato antimafia Antonio Ingroia. Mi intrometto per ricordare ai lettori che il 20 maggio, Simona Mammano presenterà il suo “Assalto alla Diaz” alla Feltrinelli di via dei Mille di Bologna e con lei ci sarà anche Antonella Beccaria.

 

Gli autori che raccontano queste vicende - direttamente o attraverso chi le raccoglie - sono spesso persone che le hanno vissute direttamente. Questo avvalora maggiormente il vostro procedimento scientifico?

Talvolta sì, ma ciò che ci interessa sono le voci di chi è dentro una storia e che ha avuto modo di viverla. Fornisce una prospettiva in più che contribuisce a dare una vicenda una panoramica più circolare.

Come vi siete divise i ruoli?

I nostri ruoli dipendono da ogni manoscritto. In genere entrambe leggiamo le proposte che ci arrivano e le discutiamo. Dopodiché forniamo le nostre valutazioni alla casa editrice. Per le fasi più operative, ci dividiamo i compiti in base alle nostre competenze: l'editing, per esempio, viene preso in carico da chi conosce meglio l'argomento o ha modo di attingere più agevolmente alla documentazione.

Un talento di Simona.

È una macchina da guerra, ha una determinazione invidiabile.

 

Risponde Simona Mammano

Ci racconti la genesi di questo progetto?

Ho conosciuto Antonella quando ha presentato il libro sulla Uno bianca, di suo avevo letto Bambini di satana e mi era piaciuto il suo stile. Ho presentato con lei in alcune città Uno bianca e trame nere e abbiamo capito di avere interessi comuni. Sulla Uno bianca avevo ascoltato tutte le udienze del processo contro i Savi e letto gli atti, inoltre stavo seguendo i processi di mafia e non più significativi, per puro interesse. L'idea della collana è venuta ad Antonella e mi ha chiesto di partecipare al progetto, che poi abbiamo presentato all'editore di Stampa Alternativa, Marcello Baraghini.

Se tu dovessi condensare in poche parole il senso profondo di questa collana, quali sarebbero?

Informazione, il più possibile diretta, anche con il registro narrativo del romanzo, è quello che io stessa mi aspetterei da una collana di questo tipo. Niente sensazionalismi, solo una corretta, onesta e verificata informazione sui temi che affliggono l'Italia. Spesso ci arrivano testi che giudichiamo interessanti, altre volte chiediamo a qualcuno di scrivere su un particolare argomento, come abbiamo fatto con Antonio Ingroia, a cui abbiamo proposto di spiegare il difficile mondo delle intercettazioni.

Progetti per il futuro?

Sono tanti, ma principalmente vogliamo fare crescere la collana e l'uscita di pochi libri all'anno ce ne dà la possibilità.

Un talento di Antonella.

Sicuramente l'organizzazione, dote essenziale per i progetti a lungo termine.

 

Gli autori:

Risponde Alessandro Chiarelli

Lei ha affrontato una tematica scottante, quella dell’abuso di un  minore. Una storia inventata sulla base di una realtà vera. Quanto c’è, nello scrittore, della sua attività di sostituto commissario di polizia e capo dell'Ufficio minori della questura di Ferrara?

C’è la materia prima, come la creta per il vasaio. Quel materiale di esperienza, di umanità, di dolore e riscatto, dove accade, che è il quotidiano di chi si occupa di queste vicende.

Protagonista e vittima è Antonio, un bimbo che sogna di fare il poliziotto e che vive in una famiglia apparentemente normale. Ma l’abuso subito da Antonio può avvenire in ogni famiglia o esistono delle situazioni-tipo?

Il fenomeno è trasversale rispetto a ogni criterio identificativo, che sia geografico, sociale, economico o culturale. La vulgata comune tende a pensare questi reati situandoli in realtà degradate, connotate da povertà di risorse economiche e culturali: si tratta di una semplificazione per allontanare l’ipotesi del rischio da sé stessi. In realtà tali situazioni non sono indicatori di una maggiore propensione al crimine pedofilo. 

La scelta del tu empatico focalizza il punto di vista del bambino con una resa, in alcuni punti, molto intensa: come mai ha scelto una scrittura in seconda persona?

Pur essendo stato un moto di istinto, più che di una scelta, ho optato per il tu empatico per un motivo preciso: volevo ottenere una lunga soggettiva senza stacco, per usare un termine cinematografico, sul bambino. Inquadrando solo e sempre lui, il lettore adotta un punto di vista soggettivo, gli sta accanto, come un angelo di Wenders, e vive il suo dolore con la consapevolezza che la sua mano, che pure gli tende, non ha il potere di lenirlo, ma solo di riconoscerlo, di farlo anche suo.

Nei ringraziamenti ha precisato: «La storia di Antonio non è mai avvenuta, questo bambino non esiste. Il dolore che ho raccontato invece sì: accade ogni giorno, in molte famiglie “normali”. Dedico questo libro, questa storia inventata, a coloro che dentro ci riconosceranno la loro muta sofferenza, semmai abbia avuto la fortuna di coglierla, da qualche parte, tra queste righe. Dedico questo libro ai bambini che non abbiamo aiutato. Lo dedico a quelli che non aiuteremo.» In queste frasi coesistono, assieme, l’ottimismo della speranza e il pessimismo di chi non vuole chiudersi gli occhi. Come fanno a coesistere queste due visioni contrastanti?

Ottimismo e pessimismo sono atteggiamenti che hanno entrambi ragioni per esistere, in questo genere di vicende come in tutte le altre. Coltivare la speranza e lavorare affinché le situazioni di abuso escano dal sommerso e possano essere trattate è l’obbiettivo che va perseguito con tenacia e con la consapevolezza che si comincia solo ora a diffondere una cultura di protezione dell’infanzia.

Parimenti, accettare l’enorme complessità del problema, riconoscere i problemi sul tappeto, da quelli di matrice culturale a quelli di ordine squisitamente organizzativo, significa però sapere che ci sono e ci saranno ancora bambini che non saranno “abbastanza” aiutati, e significa soprattutto farsi carico, tutti noi, di questo dato, senza nascondersi dietro il dito di uno slogan, o di uno spot.

Risponde Andrea Pompili 

Dopo l’omicidio di Marco Biagi, la sera del 20 maggio 2002, furono inviate a oltre cinquecento indirizzi di posta elettronica, soprattutto appartenenti a sindacati e partiti, e-mail con allegato un documento di ventisei pagine con le motivazioni ideologiche dell’atto terroristico. Lei scrive: “Era la prima volta che un mezzo potente e diretto come Internet veniva usato in un contesto terroristico e per la prima volta gli investigatori si trovarono di fronte a un mondo che fino a quel momento era stato appannaggio di ragazzini geniali o fanatici della tecnologia.” Oltre a questo riferimento, l’idea che il lettore si fa è che le Istituzioni –e non solo esse- brancolino nel buio nel settore informatico e, comunque, giungano sempre in ritardo. É così?  

Il problema esiste. Sia chiaro, non parliamo di inefficienza, ne' di superficialità delle Istituzioni, ma di un problema che riguarda la natura della materia stessa, insito nelle sue fondamenta e legato alla forte distribuzione del sistema e all'immediata accessibilità di mezzi e strumenti che facilitano il compito del malintenzionato di turno.

Nella stragrande maggioranza dei casi, trovare il colpevole di un reato informatico necessita dello stesso sforzo necessario per trovare un ago in un pagliaio, complicato oltretutto dalla possibilità di agire mascherati da punti di passaggio che risiedono su altri territori internazionali, su cui potrebbe essere impossibile effettuare una rogatoria, o per i quali tale azione potrebbe addirittura non essere considerata come reato.

Ovviamente esiste sempre il fattore umano, l'errore, che molte volte porta a minuscole tracce o, almeno, alla possibilità di stringere il cerchio attorno alll'autore dell'azione, per poi sperare in una sua confessione o in qualche prova sul suo computer personale. 

Su quest'ultimo punto si gioca la partita dell'investigazione informatica, un punto che nella maggior parte dei casi arriva ad essere un buco nell'acqua, causato dalla precarietà del castello accusatorio, dal modus operandi specifico della Procura di Riferimento, o semplicemente dalla scarsa mediaticità dell'evento stesso, perchè anche l'occhio vuole la sua parte.

La questione della responsabilità mediatica: come si potrebbe controllare, secondo lei, la disinformazione o l’abuso di notizie?

In realtà il problema non è controllare la disinformazione o l'abuso di notizie, ma il modo in cui l'informazione stessa viene strumentalizzata in rapporto a determinati obiettivi, prevalentemente politici. Basti pensare al caso Telecom. Durante l'estate del 2006 non passava giorno che qualche giornale non parlasse di intercettazioni e spioni, un crescendo che ebbe la sua apoteosi dopo il suicidio di Adamo Bove: tutte le testate titolarono a caratteri cubitali un problema italiano di dimensioni epocali, informazioni che si rincorrevano tra confidenze, fatti e esternazioni gravi che non avevano ne' autori ne' responsabili.

Durante la sequela di arresti tra settembre e il gennaio successivo gli indagati conoscevano il proprio destino leggendo le ANSA e le ultimissime dei portali di informazione su Internet, fino all'estremo toccato il 31 gennaio 2007, in cui il sottoscritto venne messo a conoscenza del proprio arresto persino dopo l'indiscrezione pubblicata dal Velino la sera prima. Al punto che i colleghi Telecom erano già pronti a ricevermi all'ingresso degli uffici per le perquisizioni di rito.

Poi, quando Tronchetti Provera lasciò Telecom nel settembre del 2007, fu silenzio stampa. Anzi, si parlava ancora dell'accaduto, ma solo in termini di paragone: "intercettazioni come quelle del caso Telecom", "investigazioni private che hanno preoccupanti analogie con quelle del caso Telecom" ed infine "personaggi che avevano contatti con esponenti importanti del caso Telecom".

Cosa era accaduto nel frattempo? Perchè nessuno si preoccupava di capire perchè un soggetto ritenuto dal tribunale delle Libertà socialmente pericoloso e quindi controllabile solo mediante detenzione, poi alla fine poteva essere liberato quando non aveva più niente di interessante da dire? Perchè nonostante tutti gli elementi sventolati da giornalisti e esperti del settore, alla fine l'inequivocabile mandante di tutte le presunte azioni illegali veniva delicatamente esonerato da ogni responsabilità oggettiva? 

Alla fine del libro c’è un riferimento al peregrinare di Ulisse. “Penso sempre alla storia di Ulisse. In fondo lui è riuscito a rimettere tutto a posto e io in qualche modo ci sto riuscendo lottando giorno dopo giorno contro cose a volte più grandi di me.” Oltre all’idea del viaggio, della lontananza, della fatica, della meta che sembra sempre irraggiungibile, parlando sempre in termini metaforici, quali sono state le sue sirene, quali le tempeste?

E' uno dei miei principali difetti: amo il lavoro che faccio. La passione per il proprio lavoro è ammaliante come una bellissima sirena, attenua e sfuma il contesto, concentra l'attenzione, rende gli obiettivi appassionanti e riempie la propria vita professionale come se fosse l'unica e naturale prospettiva esistente. E mentre la tempesta inizia a rumoreggiare sulla Security di Telecom, il suo canto tranquillizza tutti sul fatto che, qualsiasi cosa sarebbe accaduta, non ci sarebbe stata alcuna ripercussione perchè, alla fine, noi avevamo sempre lavorato bene.   

La tempesta invece c'è stata. Una tempesta iniziata con un annuncio via radio trasmesso il primo pomeriggio del 21 luglio del 2006, quando uno dei più importanti dirigenti della Sicurezza Telecom, Adamo Bove, si gettò inspiegabilmente da uno dei cavalcavia della tangenziale di Napoli.

Una tempesta fatta da informazioni che si susseguivano senza sosta tra indiscrezioni, fughe di notizie e rivelazioni shock, intervallate da silenzi premonitori di qualche importante arresto. Poi, in una settimana, l'arresto di Ghioni, la chiusura del nostro gruppo, l'iscrizione al registro degli indagati, la sospensione da Telecom e infine l'arresto, proprio il giorno successivo.

Se tornasse indietro, c’è qualcosa che farebbe (o non farebbe) per tutelarsi?

Sicuramente l'esperienza insegna, anche se, alla fine, è solo una questione di eventi che si incastrano: una persona che decide di pentirsi, un messaggio anonimo, qualche sbadato che lascia qualche traccia compromettente, la buona fede tradita, e tantissimi altri elementi che, seppur impercettibili, alla fine generano un quadro generale piuttosto inquietante.

Durante l'indagine un magistrato mi disse: "questo è il momento di decidere da che parte stare: la barca sta affondando e tutti ormai si stanno saltando fuori e cercando di collaborare per salvarsi la vita". Mai considerazione è stata più vera. Forse bastava parlarne indipendentemente dai fatti, forse bastava essere semplicemente i primi, forse anche chiarire la propria posizione da subalterno e fornire contemporaneamente indirizzi interessanti alle indagini come fece qualche collega ottenendo la possibilità di esserne fuori. O forse bisognava dimettersi, o richiedere uno spostamento di attività, almeno per dimostrare la "distanza" da quel mondo ormai irrimediabilmente corrotto.

La verità è che quando le cose vanno male tutelarsi è solo una questione di fortuna, magari aiutata da qualcuno.