Prima di tutto sgombriamo il campo da un equivoco. Vladivostock Hit pur essendo il primo romanzo di una nuova serie è firmato Stephen Gunn perché, di fatto, si lega al Professionista più che ad altre mie serie. Come dicevo in altra sede, 15 anni fa, per pubblicare storie di spionaggio con ambientazioni e personaggi non italiani l’editore richiedeva uno pseudonimo. Non credo di essere l’unico autore costretto a questo sotterfugio né tra gli scrittori né tra registi e sceneggiatori. In Italia è sempre stato così e, del resto ritengo sempre più importante raccontare una storia come si vuole che incaponirsi sul nome. Dopo 15 anni non aveva senso creare confusione nei lettori cambiando la firma dei romanzi anche perché Stephen Gunn è diventato un marchio di …fabbrica riconosciuto. Chiuso l’argomento pseudonimi.

Credo sia interessante conoscere alcuni meccanismi che stanno alle spalle di questo libro. “Vladivostk Hit” nasce come spin off (all’inizio era un racconto, poi Sergio mi ha stimolato a scrivere un romanzo e adesso ho in programma un secondo episodio) della serie Vlad, ma anche del Professionista. Vlad è un serial che originariamente doveva essere diviso in 5 episodi, poi si è allungato a 7. È la storia dell’uomo senza memoria che concepii pensando a “Un nome senza volto” ma soprattutto a “XIII” di Van Hamme. Il trucco (oltre l’ambiente prevalentemente russo) stava nel fatto che il protagonista, contrariamente a quello che avviene in queste vicende, non arrivava mai a recuperare la memoria. Però la sua storia, in qualche modo, veniva ricostruita. Dopodichè Vlad diventava un po’… non inutile, e rischiava di trasformarsi in un doppio del Professionista che, invece, è ancora un personaggio estremamente vivo e in grado di cambiare pelle periodicamente e non di cristallizzarsi. Nel 2003 avevo bisogno di un’antagonista per Vlad, una nemica. In quel periodo mi capitò di conoscere una nota pornostar italiana che mi risultò molto simpatica. Una donna libera, feroce nel termine che io considero positivo. Aveva girato un paio di film in cui aveva capelli rosso fuoco. Così è nata Antonia Lake, la donna che dice di essere “marcia dentro” e non se ne dispiace. Ora, mi rendo conto che è un personaggio femminile creato per soddisfare certe fantasie maschili e non ha la pretesa di avere uno spessore psicologico gradito al pubblico femminile. Volevo un personaggio così amorale da essere sopra tutti, anche al suo avversario di cui poi diventava alleata. Un personaggio così forte psicologicamente che ha preso letteralmente il sopravvento e non ha…voluto morire. È sopravvissuta non solo alla serie di Vlad ma è passata come comprimaria in quella del Professionista e ha anche delle avventure sue come appunto “Vladivostock Hit”. Di solito non credo alle storie di personaggi che s’impongono sugli autori che, a mio parere, sono sempre al comando del loro universo. Con Antonia mi sono dovuto ricredere. Non è la prima volta che creo un personaggio femminile. Nel caso di Jasmine l’esperimento è finito presto perché l’editore voleva imporre una “buonismo” che era fuori dalle mie corde. Nel caso dell’ “Ultima Imperatrice” (Mondadori) ho avuto la possibilità di creare un’eroina “nera”, dolce e terribile che poteva fare qualsiasi nefandezza pur di sopravvivere. Antonia è un po’ così. Certamente è un personaggio negativo, ma non è che vada a cercare appositamente situazioni criminali… tenta di sopravvivere in un ambiente dove tutti sono agguerriti e crudeli. Per restare viva deve esserlo di più. E questo non credo che abbia a che fare con l’essere uomini o donne. È l’essenza dei sopravvissuti. Ci sono poi molti altri elementi di interesse in “Vladivostok Hit”. Prima di tutto è una storia di ambiente russo, un panorama che, negli ultimi anni, mi ha molto affascinato e su quale ho effettuato numerose ricerche. Alcune hanno a che fare con la storia e la situazione politica. È il risvolto che viene fuori quando entra in scena Ignashov che è il principale personaggio maschile. Le condizioni di arretratezza in cui deve operare la Milicjia, i contrasti interni tra FSB ed SVR, la Russia stalinista che non è cambiata anche dopo la caduta del muro. Curioso che tutto questo sia nato (nel 2007 quando scrissi questo romanzo) prima di cominciare a tradurre l’opera di Ghelfi (la serie “Volk” pubblicata su Segretissimo) che rispecchia diversi lati di questo libro. Si vede che ho fatto bene i compiti… Ma Vladivostock, questo territorio ai confini del mondo, una terra gelida, perennemente battuta da venti e neve, è anche la città di Ungern Khan, dei decabristi esiliati ai tempi degli zar…e della magia siberiana. Sotto questo profilo c’è un legame diretto con un personaggio di un’altra avventura di Chance Renard, Yaponchik. È lo stesso personaggio che spariva al termine di “Dossier Yaponchik”, lo stregone che forse è Rasputin, forse un millantatore. Anche questo è un cattivo che nasce da diverse fonti. Yaponchik è un mito russo che ho sentito nominare la prima volta in un episodio di “Millennium”, la sfortunata ma bellissima serie di Chris Carter che ha fatto seguito a “X Files”. Ricercando un po’ ho scoperto che Yaponchik è una sorta di uomo nero della tradizione russa. Quando in Russia, oggi come due secoli fa, non sanno spiegare qualcosa… la colpa è di Yaponchik. Rasputin, Stalingrado, i Pogrom, Chernobyl, la guerra in Cecenia…è sempre responsabilità di Yaponchik. In quel romanzo del Professionista riuscivo a creare un legame tra questa figura e il clan dei Lupi grigi, la setta del Lupo azzurro della Mongolia e una tradizione magico fantastica che si riallacciava all’universo sovrannaturale di Mike Mignola( “Hellboy”). La storia finiva un po’ bruscamente per continuare in “L’inferno dei vivi” sotto un differente profilo. Così ho pensato di riportare in azione Yaponchik fondendolo con la leggenda del Tristo Mietitore e… alcune più recenti suggestioni cinematografiche. Non sfuggiranno al lettore esperto di cinema rimandi alla serie “Hostel” di Ely Roth e, per dirla tutta, Yaponchik ha in questo romanzo l’aspetto che Rob Zombie ha dato alla rilettura di “Halloween”. Tutto ricucinato in una salsa “mia” alla quale non sono esenti diverse altre ispirazioni narrativi e storiche. Prima di tutto volevo scrivere ancora qualcosa sulla mafia giapponese, la Yakuza, almeno come l’aveva vista un altro mio mito cinematografico: Takashi Miike. Il cattivo giapponese è chiaramente lui. Insieme ci ho inserito la tradizione del “Bondage” nipponico lo Shibari. L’arte di legare per tortura che mi è stata suggerita vedendo una mostra fotografica di Greg Araki. Ovviamente c’è molta arte marziale. Un riferimento ai ninja e al loro universo mistico con la cerimonia dei sigilli mistici del “taglio a nove mani”, il Kuji Kiri e ai Tengu, figure di demoni mezzi umani- mezzi uccelli che fanno parte del patrimonio esoterico delle arti marziali e dello Shughendo, disciplina molto vicina al Ninjitsu. Giusto per non negarsi niente ho inserito nel contesto della mafia giapponese, la sua branca coreana, meno conosciuta ma violentissima. Qui era ineludibile non accennare almeno sommariamente a Mas Oyama, coreano, fondatore del lo stile Kyokushin, da me praticato anni fa. Tutta la parte della Ginger House, con i combattimenti nelle gabbie viene dalle mie esperienze marziali nell’ambiente del Mixed Martial Arts. Però c’è anche la suggestione dei “Lingery-bar”che ho visto a Shinjuku e ho ritrovato in un romanzo di Muratami Ryo, “Tokyo Soup”, che guardacaso è uno degli scrittori che hanno influenzato l’opera di Miike come regista (“Audition”). C’è un altro riferimento interessante ai Tengu, gli spiriti delle montagne giapponesi, mezzi uomini e mezzi uccelli. Angeli e demoni del misticismo marziale nipponico completano il profilo “horror” della storia. Tutto questo ovviamente mi è piaciuto “cucinarlo”alla mia maniera con combattimenti, mistero, atmosfera e un ritmo sempre serrato perché, alla fine, sempre un Segretissimo resta, e il lettore deve essere spinto a girare pagina sino alla fine.

Un’ultima nota. In appendice a questo romanzo c’è un altro mio racconto “Riflessi nel buio, una storia di Gangland”. È una rivisitazione di un mio vecchio racconto e fa parte assieme a “In fondo al fiume nero” e ad altre storie che seguiranno della nuova linea seguita dalla serie del Professionista. Gangland è Milano, come qualche lettore sa già. C’è stato un romanzo fondamentale della serie che ha segnato il passaggio del Professionista ad ambientazioni più italiane che si intitolava appunto “Gangland”. Mi è piaciuta l’idea di creare una serie di piccole storie di malavita milanese senza protagonista fisso ma che si svolgono nello stesso universo dove si muove Chance Renard e, naturalmente, anche Antonia Lake.

Dimenticavo… c’è un altro piccolo, importante particolare. Tra i personaggi di “Vladivostock Hit” c’è la giornalista Marya Banjevna che all’epoca mi fu suggerita dalla conoscenza di una più che promettente collega, Barbara Baraldi. Ovviamente lei, come tutti quelli che prestano la propria immagine come personaggi dei miei libri, è solo un’interprete. In questo caso azzeccatissima.

Così come è azzeccatissima la cover che Victor Togliani ha creato da una foto della mia amica Daniela Basilico inserendola in uno scenario cupo, suggestivo, che con poche pennellate rende perfettamente l’ambiente russo della vicenda.