Mi chiamo Sofia e sono un’assassina.

Non che mi vanti della cosa, s’intende. E’ capitato. Non so dire se fosse inevitabile.

Devo ammettere che non ho rimorsi, in effetti li trovo alquanto inutili.

In fondo chiunque è potenzialmente un assassino. Le circostanze, l’infelicità, le coincidenze… sono tutti fattori che concorrono a far varcare il famigerato confine. Basta un passo oltre la linea e non si può più tornare indietro.

Non riesco ad odiarmi per quello che ho fatto. Ma è vero anche che non sono mai riuscita ad amarmi, neanche prima di compiere quello scempio.

Mia madre era un’attrice. Non rinunciò mai ad inseguire i suoi sogni ed io ne pagai il prezzo.

Mi affidò ad uno zio di secondo grado quando avevo solo cinque anni. E cinque anni sono davvero pochi, anche volendo trovare giustificazioni. Non provo nulla per mia madre. Odiarne il ricordo sarebbe già ammettere che volevo il suo amore e che l’ho cercato disperatamente per molti anni, prima di arrendermi.

Mi hanno avvisato del suo suicidio con un telegramma. Sette dico sette parole in tutto. Confesso che lo conservo ancora e non so neanche perché, in effetti è una cosa che non ha senso.

Era ancora giovane e bella mia madre quando decise di tagliarsi le vene nella vasca da bagno di un piccolo albergo di provincia.

Sono cresciuta con questo zio, con mia cugina e con le donne che lui ci portava a casa obbligandoci ad essere gentili con loro. Vivevano con noi per un po’, perlopiù ignorandoci. Se ne andavano e venivano prontamente sostituite. Non c’era pericolo d’affezionarsi.

Io e mia cugina Sara eravamo coetanee e passavamo quasi tutto il tempo insieme. Parlavamo poco, per quanto possa sembrare strano, e leggevamo molto. Vivevamo in una casa di campagna grande e in buona parte fatiscente, ma che racchiudeva al suo interno memorie di un passato ben diverso. Molte stanze erano state chiuse, alcune erano addirittura inagibili. La mia stanza preferita era la biblioteca. Si trovava al piano superiore eppure le pareti erano intrise di umidità e molti volumi erano andati perduti a causa delle muffe, un vero peccato. Gli scaffali erano di legno spesso e scuro, i libri erano collocati in modo casuale e disordinato. Prosa e Poesia, testi religiosi e teoremi alchemici, mappe geografiche e vecchi libri di geometria…Tutto era mescolato senza alcuna logica apparente. C’era odore d’antico nell’aria, un odore che quasi stordiva. Lo zio non ci consentiva di sostare in quella stanza, perciò di solito io e Sara sceglievamo i libri ed uscivamo in giardino a leggerli. Entrambe sedute sull’erba sprofondavamo nella lettura per diverse ore. Apparentemente non c’era comunicazione fra di noi, eppure ancora adesso ho nostalgia di quella silente compagnia.

Credo che mio zio fosse una brava persona. E questo lo sostengo fermamente, anche se l’ho ucciso.

E’ che purtroppo anche le brave persone commettono errori e non sempre chi ne è vittima è disposto a passarci sopra. Io, ad esempio, sono del tutto incapace di perdonare.

Mio zio amava collezionare cose. Collezionava orologi, coltelli, cravatte e monete antiche.

Aveva una particolare predilezione per i coltelli. Alcuni, i più antichi, li aveva ereditati da suo nonno. Io ero affascinata dal modo in cui li guardava. Sembrava vederci cose che nessun altro poteva vedere. Una volta, quand’ero piccola, ricordo che mi disse “Sofia… non farti ingannare… anche le cose hanno un’anima!” Lì per lì pensai che stesse vaneggiando, solo molti anni dopo compresi cosa avesse voluto dirmi. A volte pensavo che amasse quei coltelli più di me o addirittura più di sua figlia Sara. Fino a quando io e lei non divenimmo adulte lui si premurò di tenerli sottochiave, all’interno di una teca trasparente, collocata nella biblioteca. A volte mi soffermavo a guardarli, cercando di individuare il mio preferito. Ho desiderato a lungo di poter impugnare quei coltelli e quello era il desiderio intenso e pericoloso che si prova nei confronti di ciò che non si può avere.

Molte volte avevo chiesto allo zio di lasciarmeli toccare almeno in sua presenza, ma non me lo concedette mai. Credo che non si trattasse soltanto della paura che io potessi ferirmi. Credo ci fosse di più. Lo zio aveva con quelle antiche armi da taglio un rapporto esclusivo e privilegiato. Come avrei voluto che qualcuno mi avesse amata con la stessa intensità con la quale lui si dedicava a quegli inutili oggetti…

Odiavo quei coltelli, ma senza smettere di desiderarli.