Ho esitato a recensire questo romanzo perché pensavo (e lo credo tuttora) di non farlo con la compiutezza che meriterebbe. Ma Bernardi perdonerà. Il motivo di fondo è che Senza luce non è un libro da leggere. E’ un libro da leggere e rileggere. La prima volta solo per il puro piacere dei periodi scorrevoli incastrati in un’architettura perfetta, la seconda volta per approfondire le riflessioni che la prima lettura fa emergere ma non concludere, perché troppo presi dalla frenesia di proseguire nel buio, a tentoni, con i fatti dei personaggi.

E’ autunno in un comune del bolognese quando un vecchio in preda a un raptus omicida comincia a sparare dalla finestra uccidendo dei passanti. La polizia, sentendosi impotente, decide di sospendere l’erogazione di energia elettrica per disorientarlo. Questo non è solo punto di partenza per il titolo del romanzo, ma è soprattutto dettaglio significativo del background artistico dell’autore, che è scrittore ma anche giornalista, saggista e studioso di criminologia, editor nonchè sceneggiatore teatrale e altre cose che non ripeterò in questa sede. Ciò che conta, invece, è l’evoluzione dello spunto cronachistico: come il passaggio dall’evento alla finzione si mantenga nei binari del quotidiano, e lo faccia investendo la narrazione di un’inquietudine palpabile e dirompente.

Sono quattro le storie che convergono verso l’epilogo, quattro realtà apparentemente ordinarie, compresse in una galleria dal cui sbocco finale non appare neppure uno spiraglio di luce. C’è la storia di Federica, ausiliaria del 118, e dei goffi, inutili tentativi d’approccio del suo vicino, il geometra Mario Peretti, dirigente comunale. C’è la storia di Domenico, uomo solitario che vive fagocitando i ricordi, incarnato dello scrittore in decadenza: lui non scrive da sei anni e tuttavia continua a farlo grazie a quella corrispondenza possibile tra pensieri e vita per cui «uno scrittore scrive sempre, anche quando non sembra. Lo fa nella sua testa, con quella calligrafia indecifrabile: la risultante di parole appassionate che contendono la punteggiatura ad altre quasi ridicolmente prive di anima». C’è poi la storia del professore universitario Umberto e della sua famiglia di cartapesta: due ragazzini egotici e petulanti, una madre sull’orlo del baratro. Le verità scomode che vengono a galla sono solo un anticipo del crollo finale: un matrimonio forzato, un cimitero galeotto.

Al centro geografico di queste tre vicende si innesta la storia –o, per meglio dire, le storie- ubicata nel bar del paese, assurto ad archetipo contemporaneo del luogo pubblico in cui si consumano bevute, giocate, incontri. In cui il tempo è quasi rarefatto perché scorre come frazionato, un pezzetto per ogni avventore. Il bar, una piazza al chiuso che del chiuso ripropone però le oscurità, tanto più accentuate quando cala il buio e le ombre si rifrangono solo al lume di una candela improvvisata: si alza così il sipario su altarini, omicidi e altre tresche di borgata.

Vorrei dedicare due paroline a quello che ho deciso di definire “l’elogio di Loretta”, anche se non credo che l’autore avesse in mente una celebrazione, piuttosto ha semplicemente descritto il personaggio con le pennellate potenti di cui è capace: ci si immagina quasi plasticamente i suoi personaggi, anche quando le descrizioni non sono minuziose ma si concentrano su pochi dettagli: dei piedi, delle mani, uno sguardo, un aroma. Grande lavoratrice, Loretta possiede un talento, nell’elargire energia, che è "la prova provata della superiorità della barista sulla parrucchiera". Piace al lettore, Loretta, per l’umanità che trasuda quasi distrattamente, piace per i suoi odori pregnanti che invitano all’amore, piace per la docilità e la semplicità che la rendono incapace di giocare se non a  carte scoperte. Ma proprio questa genuinità diventa la sua roccaforte e disarma gli avventori. Tutti, perfino gli uomini rodati da una vita d’avventura e d’indagini.

In questo mondo che crediamo creato a nostra misura e che sfruttiamo fino al midollo, il fatto che venga meno una certezza, anche solo per il tempo di cento minuti, ha un forte potere destabilizzante. L’autore si muove con sapienza in questo buio, come in una casa – senza luce, appunto – di cui conosce sporgenze e spigoli, munito solo di una torcia elettrica, quasi andasse a scovare vecchi e nuovi scheletri, per puntargli contro il faro abbagliante della narrazione.

Che infine la luce elettrica sia metafora di un’altra luce ce lo spiega Luigi Bernardi stesso: "La luce elettrica, fra tante altre cose, ha permesso l’oscuramento della notte. Annullando la notte si annulla una componente costitutiva della natura biologica dell’essere umano, con tutti gli sfasamenti che questo comporta: ansia, stress, malesseri psichici in genere. La mancanza improvvisa della luce elettrica impone la notte e il buio a persone disabituate, così come sono ormai disabituate al silenzio. Il blackout lascia i miei personaggi soli con loro stessi, forza in qualche modo una introspezione alla quale non sono preparati, li costringe a improvvisare risposte. Non tutte saranno quelle giuste."