Esce a fine mese per l'editore bolognese Giraldi Interruzioni, di Camilla Ghedini, giornalista e scrittrice ferrarese. Si tratta di quattro racconti lunghi, quattro storie di interruzioni al femminile, quattro spaccati di vita raccontati con la lente implacabile dell'introspezione ma non solo: e visto che il cielo non è diviso in due parti, ogni vicenda riguarda entrambi i sessi. Gli amanti, i mariti, gli innamorati nelle storie d'amore, i figli nelle storie di madri, i padri, perché tutte ne abbiamo avuto uno o ne abbiamo patito l'assenza. Camilla abbraccia diverse casistiche della vita e delle mancanze e colma le ombre con una luce vivissima di cui parlo, in chiusura, in questa prefazione che ho avuto l'onore di scrivere per lei: Un nuovo sguardo sull'altro e su noi stessi, questo dovrebbe donarci la lettura: e questo libro non viene meno all'impegno. Esplora territori al di là del comune e non ancora sondati a fondo, territori che hanno un nesso molto forte con la condizione del femminile e soprattutto con la maternità negata, in quattro sfaccettature dove l'idea del concepimento – e del legame che conseguirà – si declina col vissuto intimissimo di ogni voce narrante, coi suoi dubbi e con le sue certezze, coi suoi dolori e coi suoi aneliti di felicità, con le possibilità disattese. Qui, per assurdo, proprio attraverso le ferite, la morte, la rinuncia e l'interruzione si tocca la vita vera, tangibile, palpitante. I leitmotiv sono diversi, a partire dalla sottrazione, appunto, perché in ciascun racconto la protagonista ha scelto di interrompere qualcosa: rispettivamente un desiderio di maternità, una sbocciata genitorialità, una vita in cui la figura materna si rifletteva esclusivamente in specchi autoreferenziali, infine una gravidanza. Pagina dopo pagina, vediamo come il nesso filiale si intersechi a quello personale e a quello parentale, quasi a tracciare un percorso unico seguendo il quale, in qualsiasi direzione ci incamminiamo, finiamo per cascare a capofitto nella storia e ritrovare noi stessi, anche se non l'abbiamo mai fatto. Anche se non l'abbiamo mai pensato e una soluzione tanto estrema ci sembrava così lontana. L'autrice ci prende per mano e compie la magia: noi destinatari non siamo più solo spettatori di queste parentesi di vita, ma ci entriamo dentro. E lo fa con soluzioni narrative che rispondono ora al dialogo ora a un monologo il cui destinatario è una seconda persona singolare – quindi sempre una richiesta di confronto c'è, anche quando risulterà irrealizzabile. Le storie scorrono quindi con uno stile sintagmatico, disseminato di interrogativi, acquisizioni, velocissime frasi incise nella roccia dell'esistenza, che si condensano in una paratassi capace di esplodere in momenti di grande saggezza.Il primo contributo ricorda, a livello strutturale, Le operette morali di leopardiana memoria. Dura reggere un confronto così ingombrante: eppure Camilla Ghedini ci riesce egregiamente. Lo scambio di opinioni è tra due donne e una di esse ha deciso che non diventerà mai madre. Incalzata dall'incapacità di comprendere dell'altra – che sintetizza i luoghi comuni più diffusi a proposito delle donne senza prole – risponde con frasi taglienti eppure pacate, disarmando anche il più ottuso ambasciatore di pregiudizi.Nella seconda testimonianza ci troviamo faccia a faccia con un'infanticida e non la conosciamo attraverso gli occhiali che vorrebbe indossare la sua interlocutrice, no. La scopriamo intera, colpevole, precipitata nei suoi abissi, nelle sue leggerezze, nella sua implacabile sincerità. Ecco un altro filo conduttore del libro: la ricerca di una verità anche quando essa non risponde alle aspettative comuni, anche quando è così invisibile, irrintracciabile, nascosta: Ma dov'è la verità? Su quale pietra è scritta?Se una madre ha ammazzato il proprio figlio subentra un altro tema sentitissimo: quello del perdono, di se stessi innanzitutto. Anche quando sembra che l'assassino non se ne curi. Perdono per la vita, per ciò che non ha concesso, per ciò che ha tolto. Perché poi il perdono, anche in senso laico, per la sua stessa natura implica l'atto del dare, dell'offrire, come conferma l'etimo latino (per intensivo e dono, ovvero concedo, condono): e qui scatta una fiducia che si collega, attraverso la sua storia lessicale, all'originario concetto di fides. Devi lasciare che i tuoi figli se ne vadano se vuoi che rimangano con te, diceva l'editore statunitense Malcolm Forbes e questo monito, per affinità, si può applicare agli ultimi due contributi. Nel terzo ascoltiamo una figlia in procinto del suo memento mori. Si rivolge a una madre che non è mai stata davvero tale, perché priva delle qualità di accoglienza fondanti di questo ruolo – l'empatia, la dedizione, l'accettazione della propria estensione al di là di qualsiasi presunta imperfezione – e perché segnata piuttosto dal tarlo della scontentezza, come denuncia la figlia: io guardo a quello che ho, tu a quello che non hai.L'ultimo racconto è il paradigma di un'assenza che, con la sua pervasività, diviene presenza: l'infante Giulia, ossessione, idea, progetto sorto dall'incontro di due anime in fuga e presto interrotto. Ma nessuno può prevedere fino a dove possa sconfinare la visione di una donna suddita del più profondo, dolce e totalizzante tra i desideri, quello materno. Se poi questo si mescola al senso di colpa, allora le deviazioni di prospettiva possono imbrogliare qualsiasi mancanza.Come si evince, si tratta di argomenti significativi e dolorosi – soprattutto da scrivere, svolti all'insegna di un'originalità e di una raffinatezza rare. E perfino i passaggi di estrema tensione sono stati trattati con una grazia infinita, con una delicatezza che è riuscita a farsi varco anche tra le rivelazioni più dure e feroci. Resta poi, alla fine di ogni lettura, un raggio di luce, un invito alla speranza, un velo pacifico sul mondo richiamati anche dalle chiusure intrise di una terminologia che invita a fidarsi del mondo – e non è un caso che le quattro chiose avvengano con parole quali amore, bene, felicità, vita – perché, per dirla alla maniera di Johann Wolfgang von Goethe, è proprio vero che Dove c'è molta luce, l'ombra è profonda.