Non si può parlare di Licia Giaquinto senza partire dall’ Irpinia, terra natia che ha lasciato tracce indelebili nella sua arte. Per anni si è occupata di poesia sia visuale che lineare partecipando a letture e mostre. Ha pubblicato “Fa così anche il lupo” (Feltrinelli, 1993), “È successo così” (Theoria, 2000), il libro di poesie verbo visuali “Terre Rare” (Tam Tam di Adriano Spatola) e le raccolte “L’osceno teatrino”, “Alla foce del sonno”,  “L’amantide”, “I Tarocchi”, “Angeli e fiumi”. Per il teatro ha scritto alcuni testi, tra cui “Margherita da Cortona”, “La confessione”, “L’albergo delle carrozze” e “La notte”, che sono stati rappresentati da diverse compagnie.

E’ presente nelle antologie “Enokiller” (Morganti, 2005) e Chocokiller (Morganti 2005).

Ha partecipato, assieme ad altri autori  a Il gusto del delitto, ( Leonardo publishing, ottobre 2008). Una raccolta di gialli e noir promossa dalla Regione Emilia Romagna per la conoscenza di prodotti tipici della Regione. Insieme a lei, autori come Carlo Lucarelli, Loriano Macchiavelli, Francesco Guccini, Valerio Varesi, Marcello Fois, Simona Vinci.

Quindici scrittori per quindici storie di suspense che hanno per protagonista un vino o un cibo. Il prodotto al centro del noir di Licia è la pesca. Un dolcisssimo delicatissimo frutto per un racconto terribile.

 

In Cuori di nebbia (Flaccovio, 2007), ambientato nella Pianura Padana, il mistero -che non è quello classico dovuto alle esigenze del noir e legato agli eventi-  aleggia come una nebbiolina palpabile non solo su campi strade e casolari, ma negli animi di ciascun personaggio, anche in quelli apparentemente solidi e concreti. A cosa è dovuta questa percezione che ciascun lettore avverte sempre più intensa a mano a mano che va avanti nella lettura?

Parto dalla premessa che ogni uomo è gettato nel mondo, e che per non soccombere si aggrappa con le unghie e i denti a costruzioni che ritiene assolute, e che invece sono solo il frutto di una ossessiva e disperata ricerca di senso.  A qualcuno riesce più che ad altri di ritenersi al sicuro in una casa che pensa di aver edificato su  una roccia. Ma spesso basta  una goccia d’acqua a corrodere la roccia,  e a far precipitare la casa. Il mistero è questa possiblità di precipizio che ciascun uomo intuisce anche quando pensa di poggiare i piedi sul solido. 

L’essere gettati nel mondo è dunque, per me,  la radice di ogni mistero.

Una scrittura che metta al centro l’uomo non può prescindere da questo.

Filippo è un personaggio che infonde una grande tenerezza. Il classico azdour, il reggitore contadino, instancabile lavoratore, scevro da sentimentalismi. E’ un uomo previdente (nel senso latino prae-video, quindi è un uomo che si premunisce verso il futuro). Ma quando incalza il sentimento, le sue difese svaniscono. 

L’amore spesso può essere la goccia che sgretola la roccia su cui pensavamo di aver costruito il nostro abitare il mondo.

 

Nella storia di Francesco ha avuto qualche influenza la vicenda di Marco Mariolini, killer e autore de Il collezionista di anoressiche? 

Sì, decisamente, ma me ne sono accorta solo dopo che ho finito il romanzo.

Succede spesso che per una sorta di cryptomnesia dimentichiamo eventi, persone, luoghi che abbiamo conosciuto, e che affiorano poi involontariamente alla coscienza nel momento in cui si scrive.

Marco Mariolini è un killer la cui follia mi aveva impressionato molto, ma a cui non pensavo mentre costruivo il personaggio di Francesco.

    

A p. 23 una donna un tempo bella ma ormai consumata dice: “Ho capito che la bellezza e la gioventù sono fiori della mente, che suscitano ammirazione e adorazione, ma che niente hanno a che vedere con altri fiori, quelli capaci di sconvolgere nel profondo chi ad essi si avvicina per annusarli o coglierli.” Secondo te è diffusa la percezione di quest’altro tipo di fiori? 

Credo sia molto più diffusa di quanto si possa credere, perché l’eros segue strade  non codificabili e spesso diverse da quelle indicate dai canoni estetici vigenti.

Una cosa è costruire la statua perfetta nelle sue proporzioni geometriche, e cercare di allontanarsi il più possibile dall’animalità, ricorrendo magari a tagli, innesti di silicone, affamamenti, depilazioni totali, cancellazione degli odori del corpo, un’altra è che questa statua sia in grado di risvegliare la libido.

E poi, penso che in una società votata alla morte, quale ritengo sia la nostra (occidentale), il massimo del piacere lo si possa ricavare proprio laddove essa (la morte) è più presente. ( Anoressia, disfacimento del corpo, malattia, pericolo). In che altro modo si spiegherebbe altrimenti il fatto che  moltissimi uomini cercano  rapporti non protetti con le prostitute?

 

Il linguaggio di Cuori di nebbia si piega alle esigenze strutturali: ogni protagonista ha il suo modo d’esprimersi. E’ faticosa, a livello di stesura, questa differenziazione? 

Richiede una grande immedesimazione nei personaggi e nel loro vissuto.

Bisogna agire e parlare come loro, anzi essere loro.

E’ più complicato perché l’autore rischia continuamente di  sovrapporre la propria visione del mondo a quella del personaggio e generare incongruità psicologhe e linguistiche.

 

Lo scenario di “Fa così anche il lupo” (Feltrinelli, 1993) è l’Irpinia. Quanto la tua terra d’origine, ha contribuito alle atmosfere pagane e sensuali che permeano questo romanzo? Il lupo cosa rappresenta?

Il lupo, animale fedele al dio Marte, è il simbolo dell’Irpinia. Hirpis in lingua sannita significa infatti lupo.

Da  bambina ho vissuto in un paesino situato in mezzo alle montagne, e raggiungibile solo con una strada sterrata. La gente, rara, che veniva da fuori chiamava gli abitanti di quel paese “lupi”. Per la loro fierezza, per la loro noncuranza di regole e comportamenti del vivere cosiddetto “civile”, per la loro non accettazione di una superiorità degli uomini dovuta al censo o alla ricchezza, per la difficoltà da parte del parroco di annullare il loro eros, con il  concetto di peccato e relativo senso di colpa.

“Fa così anche il lupo”, mette in scena gli abitanti di quel villaggio, il loro intenso rapporto con la natura, il loro profondo legame con la tradizione pagana. E ci fa conoscere anche tutti gli altri personaggi misteriosi che popolavano i boschi e il paese ( streghe, ianare, scazzamurrielli, ecc ), assieme ai riti e alle magie per tenerli lontani dalla propria casa, chiedere il loro aiuto o annullare i loro malefici.   

 

L’incedere narrativo di “Fa così anche il lupo” procede quasi come una favola nera. E’ stata un sperimentazione o un processo spontaneo?

Il libro covava dentro di me da anni.

Poi un giorno mi sono svegliata con in mente una frase: Il colpo di pistola sparato da mio padre contro mia madre ha colpito lo specchio e ora una mia mano ferita da una scheggia mostra l’unico sangue di quella notte.

L’ho riconosciuta subito come l’incipit del “Lupo”.

Sono andata avanti per accostamenti, associazioni mentali, monologhi interiori, ricordi, visioni, suggestioni.

E’ stato come agire in un tempo mitico in cui non esisteva né passato né futuro, e dove tutto accadeva nello stesso presente astorico.

Nessuna sperimentazione a tavolino, dunque. Ogni libro che scrivo nasce già con il suo respiro, il suo linguaggio e la sua struttura.

 

La sensualità delle tue protagoniste è una costante che si rivela al lettore con modalità intense ma mai forzate. Cos’è per te la sensualità?

Non credo si possa definire in parole questa proprietà che appartiene più all’anima che al corpo. In ogni caso penso sia dovuta a un mistero che una persona si porta dentro: una sorta di volontà inconsapevole di annullarsi e di annullare chi gli si avvicina, di trascinarlo con sé in un luogo sconosciuto per perderlo, con la promessa magari del paradiso.

La sensualità, credo, abbia in sé questa ambivalenza: perdizione e salvezza. La bellezza ha a che fare con la seduzione solo perché rara, e nel profondo di ciascuno di noi ritenuta un dono del demonio, e dunque un’arma della perdizione.

 

Faccio ancora riferimento a "Fa così anche il lupo". I legami familiari possono essere violenti anche quando non esplodono? Esiste un modo per sublimare questo tipo di violenza?

I rapporti fra persone presuppongono adattabilità, disponiblità a mettersi in gioco, a calmare le richieste del proprio es, a ridimensionare il proprio io, a scendere a patti con le esigenze di altri ecc.

Al’interno di una famiglia tutto è molto più complicato perché ciascun membro vorrebbe poter praticare l’estrema libertà di essere se stesso, togliersi le maschere che è costretto a indossare in società e allo stesso tempo ptretendere un amore incondizionato, anche quando lui non è capace o disposto a dare agli altri quello che pretende per sé.  

Tutto ciò può generare  incomprensioni, rancori, odi,  che a volte  esplodono con grande violenza, oppure covano  in silenzio, e causano lo stesso gravi devastazioni.

Purtroppo non saprei in che modo è possibile sublimarla, questa violenza.

Forse un adeguato distacco e una giusta distanza tra i membri della famiglia, sono la migliore cura.

O, forse, la consapevolezza che ciascuno di noi è sconosciuto a se stesso, e in misura ancora maggiore agli altri, fossero pure la propria madre o il proprio padre.

 

I tuoi titoli sono sempre molto evocativi (Fa così anche il lupo - E’ successo così - Cuori di nebbia). E’ frutto dell’ispirazione d’un momento o d’una lunga meditazione?

A volte  il titolo viene all’improvviso come una luce che si accende e illumina una stanza.

A volte invece devo pensarci a lungo.

Può anche succedere che un titolo per me bello non piaccia a un editore.

E’ successo per Fa così anche il lupo, che avrebbe dovuto chiamarsi L’Angelo dell’amen.

Un angelo che la bambina protagonista invoca ogni volta che vorrebbe che  il mondo si fermasse per sempre.

Ma, scartato l’angelo,  subito ho pensato al lupo.

 

Faccio riferimento alla dedica di Cuori di nebbia: “A mio marito, che ha saputo intelligentemente sempre starmi alla larga”. Sei d’accordo con questa massima di François Mauriac: “Lo scrittore è essenzialmente un uomo che non si rassegna alla solitudine?”

Può essere una spiegazione, ma presuppone una domanda. Perché lo scrittore è solo?Perché ha bisogno di evocare fantasmi per popolare la propria esistenza?

Proprio ieri alcuni giovani scrittori dichiaravano di scrivere in gruppo.

Non capisco come possa accadere, visto che per me scrivere è inoltrarsi da soli in una foresta sconosciuta che vegeta e imputridisce dentro ciascuno di noi. 

Ma poi, è  lo scrittore solamente ad essere solo e a non accettare la solitudine?