Parlare di un giallo africano può sembrare un esercizio snobistico: mentre in molte altre zone del mondo il genere inaugurato negli Stati Uniti da Edgar Allan Poe e poi irrobustito in Inghilterra da Arthur Conan Doyle ha attecchito con una prolificità maggiore o minore ma comunque cospicua (anche se poco conosciuta dal mercato italiano), nel continente africano il noir ha trovato oggettive difficoltà sia nell’assenza di diffuse strutture urbane (il giallo nasce nelle città e con le città moderne) sia nello scarso interesse evidentemente nutrito dagli scrittori autoctoni.

Eppure ci piace segnalare in questa rubrica l’opera del britannico Alexander McCall Smith, Le lacrime della giraffa: nato nello Zimbabwe nel 1948 e poi vissuto nel Botswana insegnando nella locale università, pur essendo un classico esponente della cultura anglosassone, ha deciso di ambientare i suoi gialli nel Botswana: e così, anche se in un’atipica forma di mezzadria letteraria, il ciclo dedicato a Precious Ramotswe (sei romanzi tra il 1998 e il 2004 di cui il presente è il secondo, peraltro già in ristampa economica), investigatrice privata a Gaborone, capitale del Botswana, titolare della “Ladies’ Detective Agency n. 1” può essere annoverato tra i primi timidi passi della narrativa d’indagine africana.

La scommessa dell’autore, editorialmente vinta, si basa quindi su un’ambiguità di fondo: modello letterario importato (e dall’Occidente ex colonialista), ma personaggi del luogo, profondamente radicati nella loro cultura. In realtà lo sforzo di conciliare i due aspetti non sempre raggiunge i suoi obiettivi.

L’investigatrice risulta terribilmente naif, pur nel nobile tentativo di disegnarne un profilo autentico: sulle soglie della quarantina, abbastanza in carne (il che significa economicamente agiata), reduce da uno sfortunato matrimonio con un trombettista e dalla morte di un figlio neonato, da un lato ha la durezza necessaria per svolgere il suo lavoro, dall’altro si fa portavoce della tradizione culturale locale.

Ritiene quindi che le donne debbano avere pari opportunità rispetto agli uomini (e lo testimonia col lavoro che fa e con la benevolenza con cui promuove ad assistente la sua segretaria venticinquenne Makutsi); ma, al tempo stesso, approva alcuni ruoli tradizionali della donna (l’occuparsi del giardino, del suo uomo per farlo mangiar bene, la sottomissione al padre a cui occorre chiedere il permesso per sposarsi).

Difende il diritto di occuparsi della sua professione senza ingerenze da parte del suo promesso sposo, il meccanico JLB Matekoni, ma accetta senza battere (quasi) ciglio, anzi elogiando il suo buon cuore, l’estemporanea decisione di lui di adottare due orfani senza neppure consultarla; ha letto e consulta devotamente la sua personale Bibbia, I principi dell’indagine privata di Clovis Andersen, ma poi si affida molto all’intuizione che, spesso, si confonde con una sorta di consapevolezza sciamanica che le cose “devono” essere andate in un certo modo.

Il lodevole tentativo di McCall Smith quindi si ferma a metà del guado: vi sono troppi elementi pittoreschi, troppo colore locale, troppo spazio dato, in maniera clamorosamente manifesta, all’Africa così come se l’immaginano gli occidentali oppressi dai sensi di colpa (le baracche in lamiera, la natura arida e vorace, la povertà diffusa, la forza delle tradizioni, i guasti della modernità bianca) per fare del romanzo una voce autenticamente locale. Inoltre la labilità dell’inchiesta che fa da asse portante (la scomparsa dieci anni prima di un giovane americano innamoratosi dell’Africa e di un progetto agricolo d’avanguardia) è così evidente che neppure una mini inchiesta parallela condotta dalla sveglia assistente della Ramotswe (una banale storia di tradimento) riesce ad elevare la concentrazione di suspense nella vicenda.

Così, alla fine del libro, peraltro godibile, ci ritroviamo con un folkloristico (e assai vivace) spaccato di vita africana (e in un’isola relativamente pacifica come il Botswana rispetto ai turbolenti vicini, Sudafrica e Zimbabwe), che denuncia un certo mal d’Africa nell’autore, e un mystery abbastanza tradizionale e senza troppe emozioni.

Giudicato secondo i parametri della produzione anglosassone media il prodotto faticherebbe a raggiungere la sufficienza: il valore aggiunto, poco giallo a dire la verità, è dato appunto dall’ambientazione esotica che naturalmente nel lettore può destare assai maggiore interesse che non le avventure, assai pacifiche, della corpulenta investigatrice.

Assoluzione, quindi per Precious Ramotswe, che speriamo di rivedere alle prese con casi più convincenti.

In attesa, ma forse è inutile sottolinearlo, di un noir africano al cento per cento.

Voto: 6