Tratto dal romanzo omonimo di James McBride, che ne ha curato anche la sceneggiatura, e diretto dal famoso regista afro americano Spike Lee, è uscito nelle sale cinematografiche Miracolo a Sant’Anna, opera che ha suscitato molte polemiche.

La pellicola ha inizio con un omicidio compiuto in un ufficio postale di New York all’inizio degli anni ‘80 che riporta alla luce la storia di quattro soldati neri americani appartenenti alla 92ª Divisione “Buffalo Soldiers” dell’esercito statunitense, interamente composta da militari di colore, che, nella Toscana del 1944, rimangono bloccati in un piccolo paese, al di là delle linee nemiche, separati dal resto dell’esercito, dopo che uno di loro ha rischiato la vita per trarre in salvo un bambino italiano.

Asserragliati sulle montagne toscane con i tedeschi da un lato ed i superiori americani, incapaci di gestire gli eventi, dall’altro, i soldati riscoprono una dimenticata umanità tra gli abitanti del paese, insieme ad un gruppo di partigiani e grazie all’innocenza ed al coraggio del bambino, il cui affetto dona loro un segnale di speranza per riuscire ad andare avanti.

Il lungometraggio è attaccabile oltre che dal punto di vista storico, insostenibile la tesi che la strage di Sant’Anna sia dovuta al tradimento di un partigiano, anche, se non soprattutto, dal punto di vista della sceneggiatura.

Nel raccontare questa vicenda la troupe sembra perdere la bussola e mescolare troppi registri e troppe ambizioni dando vita ad un lunghissimo polpettone, di quasi due ore e mezzo di durata, che troppi temi vorrebbe trattare, finendo per trattarne male molti.

La Seconda Guerra Mondiale viene portata sul grande schermo con un mare di luoghi comuni tipicamente americani.

I nazisti sono visti quasi tutti come cattivissimi e sottolineati ogni volta da una fastidiosissima e quasi parodistica colonna sonora, gli italiani come stupidi ed eterni provincialotti, capaci di accontentarsi di un semplice pezzo di cioccolato o di una Camel, le donne italiane come ‘accaldate’ femmine da accontentare, nell’attesa che tornino i mariti dal fronte, e i bambini identici all’indimenticabile bimbo de La vita è Bella, che ha fatto scuola persino nel vestiario.

Nonostante ciò, Miracolo a Sant’Anna non è un film da condannare in toto.

Degne di nota sono le sequenze di combattimento che si avvalgono del contributo del direttore della fotografia Ernest Dickerson, qui responsabile della seconda unità, e di un prezioso consulente militare.

I personaggi dei quattro soldati sono inoltre ben tratteggiati.

Per Spike Lee, infatti, era importante che non fossero una piccola massa indistinta e che, anzi, ognuno avesse i propri tratti distintivi per poter sfuggire all’omologazione subita spesso e volentieri dagli afroamericani.

Obiettivo centrato, perché al di là di Cummings, che rientra nello stereotipo del soldato sbruffone, Train, Stamps e Negron sono figure interessanti e verosimili.

Promossi a pieni voti anche gli attori italiani: Pierfrancesco Favino, Valentina Cervi, Omero Antonutti, Sergio Albelli e Matteo Sciabordi, che interpreta il piccolo protagonista.

È proprio il suo personaggio però che non convince affatto e che, a tratti, irrita: Angelo, il bambino italiano che aiuta a risolvere l’enigma della strage di Sant’Anna e che nel film incarna il miracolo dell’amore cristiano e della solidarietà, dona infatti al film quella fastidiosa retorica che contraddistingue molti lungometreaggi di guerra americani, che invece vorremmo più scarni e asciutti.

Un ultimo appunto negativo da sottolineare è che il massacro di Sant’Anna è stato relegato a un breve episodio, mostrato e spiegato frettolosamente a tre quarti del film.

Da un regista colto e capace come Spike Lee è lecito aspettarsi molto di più.