Giunto in città per ritrovare il fratello Yeung–shik (Kim Hak) e convincerlo a tornare dalla madre in campagna, Dong–shik (Jo Hae–won) s’imbatte presto in una realtà all’apparenza incomprensibile: un borseggiatore lo deruba subito di tutti i suoi averi e il fratello, scoperto in mezzo a una folla, fugge come spaventato. Una volta raggiunto il covo in cui Yeung–shik si nasconde, Dong–shik capisce che si tratta di un ritrovo di prostitute, fra le quali spiccano la romantica Judy (Kang Seon–hee) e la bellissima e spregiudicata Sonya (Choi Eun–hee). Dong–shik non ha ancora capito bene di cosa si occupi il fratello, ma la presenza di donne così ambigue non lo rassicura di certo. Visto che Yeung–shik non ha intenzione di seguirlo in campagna, intento com’è a progettare un grosso frutto ai danni dei militari americani, e che Sonya sembra avere un forte ascendente su di lui, Dong–shik decide di parlarle, in modo da spingerla a convincere Yeung–shik ad abbandonare quella vita. Il giovane non ha però fatto i conti con la totale amoralità di Sonya, che non solo all’inizio lo scambia per uno dei tanti clienti, ma addirittura finge di circuirlo per distoglierlo dal suo intento. Salvo poi soccombere lei stessa alla propria idea di seduzione e cedere all’inspiegabile innocenza di Dong–shik. La donna forse vorrebbe unicamente far ingelosire Yeung–shik o mettere i fratelli uno contro l’altro, ma sarà proprio il candore del giovane venuto dalla campagna, così diverso da tutto quello che la circonda, a scatenare la tragedia.

            Una delle cinque pellicole scelte a rappresentare il cinema di Shin Sang–ok, alla sua uscita nel 1958 A Flower in Hell fece scalpore non solo per l’argomento scelto (la vita delle prostitute e della piccola criminalità in una Seoul invasa dalle basi militari americane) ma anche perché il regista decise di “sporcare” l’immagine da diva immacolata della moglie Choi Eun-hee affidandole la parte di una donna criminosa che, illudendosi di poter governare il cuore degli uomini che incontra, finisce per causare unicamente la propria rovina. Magistrale, in tal senso, la sequenza in cui Sonya, ormai disperata e sconfitta, si dibatte nel fango cercando di strappare la propria anima dal nero che soffoca i pensieri, come un fiore gettato nell’inferno che vorrebbe riscattarsi senza riuscirvi. Anche se, a ben vedere, il vero fiore del titolo è Dong-shik, la cui mente innocente (e in un certo senso anche un po’ ottusa) rimane invischiata suo malgrado in un mondo di oscure passioni che non le  appartengono, lasciando per questo la vita del giovane intatta e impermeabile fino alla fine, libera di sbocciare come meglio crede.