A Manila, nel vicolo Kalyehong Walang Lagusan, un microcosmo fatto di abitanti abusivi cerca di sopravvivere come può: Guido (Joel Torre) gestisce un’impresa di pompe funebri e affitta bare a chi non ha abbastanza soldi per comprarne una; la sua compagna Pining (Jaclyn Jose) si occupa del make up ai cadaveri; Carmen (Irma Adlawan) passa il tempo a giocare a mahjong per poi saldare i debiti di gioco rubando soldi ai due figli, il tossico Andoy (Denver Olivarez) e il gigolò Danny (Coco Martin); Inciang (Clarissa Montalla) si finge studentessa ma in realtà si prostituisce, Moises (Jet Alcantara) fa il ladro, la campagnola Doray (Irish Contreras) batte controvoglia per strada sognando di ritornare nel suo paesino, e il barbone Batul (Ronnie Lazaro), immobile in un angolo e completamente ricoperto di sporco e polvere, sembra osservare tutto con saggezza e senza mai dormire, conscio del fatto che “soltanto gli occhi stanchi possono chiudersi”. In questa “strada senza ritorno”, la presenza costante della morte cancella già in partenza la possibilità di avere una vita vera: ammassati l’uno sull’altro, intenti a giocare a un tavolo compresso fra una bara e l’altra, in attesa della sepoltura che non avverrà mai per mancanza di denaro, i membri di questa piccola comunità rimangono travolti dalla loro stessa affannosa ricerca di un senso, finendo per assumere una valenza analoga a quella dei topi che vagano per il vicolo rosicchiando la speranza e la volontà, ciascuno perso nelle proprie meschinità. Come Guido, a cui tutti devono dei soldi in un modo nell’altro, sia da vivi che da morti, e che maltratta la sua donna con noncuranza come se ciò fosse inevitabile e perfettamente lecito e naturale, o Carmen, che non si accorge di essere madre e di avere dei sentimenti finché tutto non è definitivamente perduto, o Inciang, che ormai ha rinunciato a sperare e aspetta solo che la vita passi. I vivi sono ormai esausti, come dice Batul, ma la lotta contro i topi che infestano le stanze della mente e del cuore, oltreché le abitazioni, risulterà inutile, specie se affiancata alla minaccia sempre incombente di uno sgombero da parte del comune.

La vita degli abitanti del ghetto non è un soggetto nuovo nel cinema filippino, ma per lo spettatore medio occidentale il film di Neal Tan può rappresentare sicuramente qualcosa di insolito e insieme autentico e universale, anche se a volte legato a certi cliché maledettisti che aleggiano qua e là nel corso dell’opera. Con un forte gusto per il realismo che affida alla lucidità del folle il compito di tessere le fila della vicenda, Casket for Rent è un film a suo modo nichilista ma nello stesso tempo pervaso da misticismo, forse un po’ facilone nel contrastare le miserie quotidiane di uomini e donne qualunque con la superiore verità del barbone-intellettuale. Anche se il personaggio di Batul interviene sempre con discrezione e senza mai giudicare coloro che gli sono a fianco, come se fra lui e gli altri esistesse uno scarto che va ben oltre la sua inazione e il loro perenne agitarsi, uno scarto che è poi il fattore di maggior fascino del film, che ha il pregio di voler dare una dignità autoriale a una realtà marginale senza per questo volerla né esaltare né condannare.