"Mi hanno chiamato il divo Giulio, la prima lettera dell’alfabeto, il gobbo la volpe, l’eternità, Belzebù. Non ho mai sporto querele perché possiedo il senso dell’umorismo. Possiedo anche un grande archivio e ogni volta che ne parlo, come d’incanto, chi deve tacere tace”

 

Inizio drammatico (gli omicidi di Pecorelli, del Generale Dalla Chiesa). A seguire l’ingresso del Il Divo/Toni Servillo in trucco ed ossa, ingresso che la dice lunga su come Paolo Sorrentino ha inteso affrontare quello che fino ad oggi è senza dubbio il suo film più ambizioso e più riuscito, frutto di un’attrazione-ossessione di lunga data nei confronti del Divo, al secolo Giulio Andreotti, il più discusso politico della storia italiana, sette volte Presidente del Consiglio e una innumerevole sequela di incarichi ministeriali, e di un raggiunto equilibrio tra la “solita” scrittura cui Sorrentino ci ha abituati ed un impeccabile tessuto visivo che accompagna l’intera storia.

Si diceva dell’ingresso: il Divo Giulio è colto in piedi al centro di una cucina alle prese con una delle emicranie che, è risaputo, lo accompagnano da sempre. Mentre il volto è celato alla vista da un lampadario che pende dal soffitto, un analgesico fa shhhh mentre si scioglie in un bicchiere…

Due segnali possono bastare ad indicare una direzione. I due segnali dicono che la scelta è stata quella di circumnavigare la figura del Divo Giulio nell’unico modo possibile, cioè sia attraverso fatti pubblici, il film abbraccia un arco temporale che si estende dalla nascita del VII, ed ultimo, Governo Andreotti, fino all’inizio, a Palermo, del processo per mafia a suo carico, sia attraverso incursioni nella sfera più intima, stando bene attento a lasciare intatto quell’alone di mistero che da sempre ne avvolge la figura, mistero che al termine del viaggio resterà esattamente lì dove è sempre stato avvolto, nel mistero appunto…

Da quanto si vede e si sente, Sorrentino non sembra essere stato assalito da particolari scrupoli reverenziali. Tale libertà gli consente di procedere con estrema scioltezza nella ricostruzione del ritratto del Divo Giulio. A grandi linee si nota che quando la ricostruzione prende di petto episodi reali, il ritratto è perlopiù corale, il Divo e i suoi più stretti collaboratori tra i quali spiccano Evangelisti (Flavio Bucci), Sbardella (Massimo Popolizio) Cirino Pomicino (Carlo Buccirosso), Salvo Lima (Giorgio Colangeli), il Divo alle prese con la vita parlamentare di quegli anni (la mancata elezione a Presidente della Repubblica nel ’92 che vide al suo posto l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro). Quando invece è la volta di lavorare più sulla “ricostruzione”, il che implica un contributo soggettivo assai più ampio, il ritratto si fa prevalentemente a due, Andreotti e un interlocutore (ad esempio l’intervista di Scalfari, o le scene di stampo famigliare in compagnia della moglie Livia…), oppure singolo, il già famoso monologo nel quale in un crescendo di stampo fortemente autoassolutorio, il Divo si offre al giudizio altrui come un individuo impegnato a realizzare il bene attraverso la frequentazione del male).

Sorrentino, che ha mosso i primi passi come sceneggiatore, attinge a piene mani sull’abbondante aneddotica che oramai appartiene al Divo come una seconda pelle, insistendo in particolare sul suo humor caustico che ha reso celebri alcune sue battute (“A che ora ti sei svegliato stamattina Giulio?” gli chiede il sacerdote. “Alle quattro”. “La Pira si svegliava alle tre…”. “La Pira era un santo, io sono un peccatore…” “Deve fare sport senatore” gli raccomanda il suo medico personale “Tutti i miei amici che facevano sport sono morti” risponde lui…) strada per certi versi obbligata (come pensare di potervi rinunciare?), ma che da sola non può certo bastare a spiegare i motivi che fanno de Il Divo un film più che riuscito. Già, perché a fare del film un grande, grandissimo film, non c’è solo la libertà di racconto e nemmeno l’eccezionale performance di Toni Servillo che al primo impatto sembra assimilabile all’imitazione di Oreste Lionello che imita Andreotti (al Bagaglino…) e invece non appena inizia a muoversi e ad interagire diventa tutt’altra cosa. A fare de Il Divo un grande, grandissimo film è invece la sua dimensione squisitamente cinematografica, come dimostrano ampiamente svariate scene rette soltanto dalla cinepresa (e dal suono…): l’arrivo di Evangelisti, Sbardella, Cirino Pomicino, Salvo Lima al cospetto di Andreotti nell’imminenza del varo del suo VII Governo, una serie di ralenti che non finiscono mai, una colonna sonora stile Morricone, e come risultato ecco piombarci addosso un pezzo di grande cinema a metà tra il grottesco e il western. Ancora: le passeggiate del Divo la mattina prestissimo seguito passo passo dalla scorta, scene che a raccontarle così suonano un po’ banali, ma che Sorrentino gira con un enfasi e un mistero che lascia, noi del pubblico, alla stregua di credenti di fronte alla reliquia di un santo, forse il momento clou del film nel quale per istante si è un tutt’uno col Divo stesso.

Qualcuno si scandalizza se il pensiero corre a Citizen Kane? Già, perché Il Divo sembra proprio il Quarto Potere italiano (oltre a far scomparire il sopravvalutato Caimano di Moretti Nanni) dove il “no trepassing” sta per metà nella maschera di Toni Servillo, e per l’altra nel ritratto di un paese e di una classe politica mai stati troppo semplici da capire…

Da non perdere, ovvio…