Forte di tre candidature ai Golden Globe nelle categorie miglior film drammatico, migliore attore (Viggo Mortensen), colonna sonora (di Howard Shore), e di un’accoglienza calorosissima da parte della stampa specializzata, esce La Promessa dell’assassino di David Cronenberg, forse soltanto la promessa di un bel film.

La storia, a grandi linee, vede il mondo della luce, capeggiato dall’ostetrica Anna Khitrova (Naomi Watts), incrociare pericolosamente il mondo delle tenebre con al vertice la triade composta da Semyon (Armin Mueller-Stahl), ferocissimo boss della Vory V Zakone (“ladri nella legge”, una casta criminale russa) che nasconde la sua vera identità dietro la facciata di innocuo ristoratore, Kirill (Vincent Cassel), suo figlio, e Nikolai Luzhin (Viggo Mortensen), autista personale di Kirill nonché sua guardia del corpo. I due mondi si incrociano quando Anna, più che decisa a risalire ai parenti di una bambina data alla luce da una giovane prostituta ucraina morta durante il parto, grazie al diario che la stessa giovane le ha lasciato finisce col bussare alla porta del ristorante di Semyon…

Perché La promessa dell’assassino è solo la promessa di un bel film? Primo perché è appesantito da uno schematismo non indifferente. Esemplari in tal senso le due sequenze d’apertura, la prima con al centro un omicidio in una bottega da barbiere, l’altra che si chiude con una nascita. Insomma, per uno che muore c’è uno che nasce, bel messaggio certo, però magari da Cronenberg ci si aspetterebbe qualcosa di meno banale. Secondo perché senza che nessuno l’abbia chiesto, senza che se ne sentisse il bisogno, senza sapere il perché, all’incirca a metà film arriva una di quelle rivelazioni che da sola basta e avanza per consegnare il film al registro della banalità più pura (di più non si può aggiungere se non che da quel momento in avanti le tenebre che avvolgevano una delle figure principali finiscono col diventare molto meno tenebrose…).

Che altro dire? Si sarà letto in giro che il film prometteva una scena, quella della sauna con Viggo Mortensen nudo impegnato in una lotta all’ultimo sangue con due sicari. La scena c’è, ovvio, e procede anche con una certa “maestosità”, ma azzardare che passerà alla storia del cinema come quella della doccia di Psyco è solo una boutade (e comunque resta un bel pezzo sotto quello della rissa in Old boy….). Se la sceneggiatura perde strada facendo metà della sua forza, più convincente è la direzione degli attori. Il primo a funzionare alla grande è Armin Mueller-Stahl, ma non lo si scopre certo oggi. Parecchio al di sotto ma capace comunque di dire la sua è anche Vincent Cassel, magari un po’ gigione ma in grado in definitiva di infondere uno stile alla pantomima del suo personaggio (naturalmente anche qui la sceneggiatura si guarda bene dall’approfondire più di tanto le dinamiche tra il personaggio di Cassel e quello di Mortensen). Ma su tutti svetta Viggo Mortensen, anche se la sua performance non basta a risollevare il film. Però è incontrovertibile che alle prese con quello che pare essere diventato il il suo alter ego, Cronenberg dà cenni di ravvedimento ricordandosi di essere in fin dei conti sempre stato a suo agio nel narrare le vicissitudini dei corpi gettati in situazioni estreme (fusi con monitor televisivi o con metalli accartocciati o ancora esplorati da strumenti chirurgici…). Il registro che Cronenberg si gioca fino in fondo appare essere, più che quello di narrare attraverso i tatuaggi, quello di descrivere l’impassibilità che il corpo a volte raggiunge (eccezionale da questo punto di vista l’investitura di Nikolai/Mortensen di fronte al gotha della Vory V Zakone). Un corpo che ne ha viste di tutti i colori non può che essere impassibile. Appunto…