Romano Valenza era figlio d’arte. Suo padre, Gennaro Valenza, aveva calcato le scene del teatro nel periodo a cavallo fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento.

Quando era nato suo figlio, pur essendo antifascista, gli aveva dato quel nome, Romano, con la speranza di avere un po’ di soldi dal regime. Soldi, in realtà, mai arrivati. In compenso era arrivata la guerra, e il piccolo Romano aveva trascorso i primi anni della sua vita fra bombardamenti, ricoveri, miseria, borsa nera e tanti, troppi morti: quello che di lì a poco Eduardo avrebbe raccontato in Napoli milionaria.

Anche la signora Maria Valenza, mamma di Romano, morì in seguito a un bombardamento. E forse fu proprio a causa di questa infanzia molto difficile che Romano Valenza sin da bambino sentì il bisogno di sostituire la realtà amara della vita con quella dolce, caleidoscopica del palcoscenico del teatro e, successivamente, anche dello schermo gigante del cinematrografo. In pratica, Valenza, ormai giovanotto, rifiutava di vedere la realtà per fuggire nel sogno.

La sua carriera di attore era identica a quella di tanti altri interpreti napoletani della sua generazione: aveva esordito da piccolo nel ruolo di Peppeniello in Miseria e nobiltà. Poi era cresciuto e aveva lavorato in varie compagnie, passando in rassegna tutti i classici del teatro comico partenopeo. Da Scarpetta a Salemme, passando per i fratelli De Filippo e La Smorfia di Troisi, De Caro ed Arena. Intanto aveva trovato anche il tempo di sposarsi con una bella e socievole giornalaia di nome Franca, molto più giovane di lui.

Valenza ogni mattina andava da lei a comprare i giornali. Lei era incuriosita e affascinata da quell’uomo di bell’aspetto che si diceva facesse l’attore e fosse anche bravo. Così cercava spesso di attaccare bottone con lui, e alla fine riuscì a conquistarlo.

Valenza da parte sua fino a quel giorno aveva frequentato solo donne intelligenti, piene di interessi, simpaticissime… in una parola: brutte. Con Franca la cosa fu diversa: trovò appetitoso il suo ragù e soprattutto il suo sesso, e fin dalla prima volta che ebbe il piacere di inforcarla come si deve, capì perché Zavattini, in una vecchia poesia, aveva affermato che la vagina era la vera prova dell’esistenza di Dio.

A Franca non sfuggì il difetto del suo futuro sposo, ma pensò: “E che male fa lui a vedere solo quello che vuole vedere? Non siamo proprio noi napoletani, in fondo, che riempiamo il caffè di zucchero, mentre gli esperti ci dicono di berlo amaro?”. Ecco, Valenza, allo stesso modo, metteva lo zucchero nella vita, e a Franca la cosa non dava fastidio, per cui se lo sposò con piacere. Il loro matrimonio in tutti quegli anni era stato, se non felicissimo, almeno sereno. Tuttavia Franca, ogni notte, prima di addormentarsi, come un novello Galilei in bigodini e vestaglia rosa, confessava al cuscino: "Eppure mi manca qualcosa…". Bisogna riconoscere che il cuscino si fece sempre i cazzi suoi.

Tutto andò avanti senza affanni, senza figli e senza avvocati fino alla notte che Valenza avrebbe ricordato per sempre come “la maledetta notte della nutella e di Francesco”. Gli anni passarono e per l’ormai anziano attore partenopeo erano arrivati i capelli bianchi, il doppio mento e la pancia, dovuta alla sua debolezza per i dolci. Quella notte si era appunto svegliato in preda al desiderio di commettere un peccato di gola. Si era recato in cucina camminando in punta di pantofole e aveva divorato un intero barattolo di nutella con lo stesso infinito piacere che dovette provare il suo salumiere quando Valenza entrò per la prima volta nel suo negozio, tanti anni prima. Ritornando a letto con il classico senso di colpa del bulimico recidivo, come nella più antica delle pochade, udì sua moglie che sussurrava qualcosa nel sonno. E stavolta non diceva “mi manca qualcosa”, bensì «Francesco… Francesco». Valenza escluse a priori che sua moglie sognasse il santo che parlava agli uccelli, e cominciò ad indagare soltanto nel campo degli uccelli, pardon, degli uomini.