Curata da Alberto Pezzotta, la retrospettiva del 2007 al Far East Film di Udine è stata interamente dedicata al regista Patrick Tam, uno dei protagonisti del cosiddetto movimento della “new wave”, che, poste le proprie basi negli anni ’70, si fece protagonista di una serie di innovazioni stilistiche e contenutistiche nel cinema di Hong Kong.

Fondamento essenziale della rivoluzione della new wave fu, in primo luogo, il lavoro televisivo che permise ai futuri astri del movimento di sperimentare nuovi modi di filmare e mettere in discussione la realtà attraverso una libertà creativa ed artistica per molti versi irripetibile. Tam fu uno degli autori a cui tale libertà venne concessa, e i suoi lavori per la televisione, benché oggetto di numerose controversie e accesi dibattiti nella Hong Kong dell’epoca, raramente avevano varcato i confini dell’isola per approdare in Occidente. La restrospettiva del FEFF assume dunque un’importanza assoluta proprio perché permette agli albori di uno degli autori della cinematografia hongkonghese di riaffiorare in superficie e di rendersi non soltanto nuovamente visibili ma anche oggetto di serio studio grazie alla prima sistematica e ragionata filmografia dei lavori televisivi di Tam inserita nel volume Patrick Tam, Nel cuore della New Wave edito dal Centro Espressioni Cinematografiche di Udine e a cura del già citato Alberto Pezzotta, con l’apporto fondamentale del regista e critico Law Kar.         

La Hong Kong degli anni ’70 era caratterizzata da una considerevole prosperità economica e da una serie di questioni sociali che il cinema, per lo più chiuso dentro i confini di un kung fu stanco e di maniera (salvo rare eccezioni), non riusciva a indagare in maniera efficace. Ecco dunque che la televisione si inventò presto un modo di analizzare il reale che il cinema sembrava aver perso, proponendo tematiche di rilevanza quotidiana quali la violenza e il disagio giovanile, la droga, la liberazione sessuale, l’indipendenza delle donne, la criminalità, la contraccezione, l’incesto, la follia, la pedofilia. In tal senso, Tam cercò più di altri di dare visibilità ad alcune tematiche particolarmente scabrose, generando spesso delle reazioni violente nel pubblico. Appassionato di cinema europeo ed in particolare della nouvelle vague francese, Tam cercò da subito di immettere il suo gusto per la ricerca formale e stilistica, così caratterizzante in molti dei suoi successivi lungometraggi, anche nei lavori televisivi, in alcuni casi aperti omaggi a uno dei registi da lui più amati, Jean Luc Godard.

Le opere di Patrick Tam constano di alcuni episodi facenti parte di progetti spesso affidati a registi diversi: Superstar Special, del 1975, prende il nome dalle star cinematografriche che ne sono protagoniste e Tam ne dirige tre su cinque; la serie C.I.D., del 1976 ed il cui titolo riprende l’acronimo del Crime Investigation Department, il dipartimento della squadra anticrimine di Hong Kong, vede Tam alla regia di cinque episodi. Più estesa la presenza di Tam invece nel progetto Seven Women, sempre del 1976 e tutto incentrato sull’universo femminile: l’intera serie parte infatti da un’idea del regista e della sceneggiatrice Joyce Chan e dei sette episodi soltanto uno non è diretto dal regista, ma da Law Kar. Social Worker, del 1977, è invece dedicato al mondo degli assistenti sociali e Tam dirige un episodio solo, mentre  Thirteen, del 1977, si concentra sul tema della suspense, suggellato dal numero portatore di cattivi presagi, il tredici, appunto. Tutti e dieci gli episodi sono diretti da Tam. The Underdogs, infine, del 1977, indaga la vita degli emarginati e consta di cinque episodi, di cui uno diretto da Tam.

A un primo sguardo, molte delle tematiche care a Tam e successivamente sviluppate nei film per il cinema appaiono già nella loro interezza in questi piccoli capolavori: primi fra tutti, la violenza come assurda e illogica virata verso la follia di fronte all’apparente placidità delle cose, e la chiarezza di intenti della donna, o meglio della “new woman”, come la critica e osservatrice Mary Wong definì il personaggio femminile messo in scena dal regista. La prima tematica appare posta in evidenza nel bell’episodio “musicale” di C.I.D. Dawn, Noon, Dusk, Night, costruito su quattro diversi segmenti destinati a quattro diversi poliziotti e a quattro diverse fasi della vita che riguardano più le vittime dei crimini che non i rappresentanti della legge. Nel primo segmento, una bambina viene maltrattata dai genitori con un ferro da stiro e il poliziotto cerca non soltanto di far ammettere la cosa ai diretti interessati ma anche di convincerli a smettere. Nel secondo episodio, invece, la vittima questa volta è una tredicenne molestata da un pedofilo in un palazzo ma che, interrogata, sembra non preoccuparsi più di tanto delle ripercussioni delle azioni dell’uomo su di lei. Nel terzo segmento, un vecchietto viene ucciso da un suo coetaneo, come lui ospite di una casa di riposo, e il poliziotto incaricato delle indagini torna sconsolato a casa e alla sua grigia vita. Nel quarto episodio la vittima è invece una donna adulta, investita da un pirata della strada. Sul luogo del delitto interviene il poliziotto di turno, precedentemente impegnato in discoteca a ballare con la sua compagna. Ciò che colpisce di più in questi quattro “movimenti” è il continuo rimandare a un chiaro scioglimento della tensione; la violenza, se c’è, è come raggelata, ovattata, quasi cancellata dalla piatta banalità del quotidiano e dallo sguardo attonito dei protagonisti. Se è vero che i poliziotti incaricati di risolvere i fatti nei primi due episodi cercano di risolvere la questione facendo rinsavire la vittima (la tredicenne molestata) o il carnefice (i genitori della bambina maltrattata), è anche vero che le loro parole non trovano un corrispettivo negli ascoltatori, come se non si adattassero più al codice anaffettivo ormai condiviso dagli strati più sottili della società. Nei primi due segmenti dell’episodio Tam cerca quasi di rilevare quell’assenza di emotività, tipica della società consumista e capitalista, che sarà oggetto di indagine sociologica e antropologica in molte opere a venire, e sfocia persino nel pessimismo più totale nei due segmenti successivi, in cui anche i poliziotti, presunti rappresentanti di un ordine morale “superiore”, restano loro malgrado imbrigliati nella sarabanda di folle e atona mancanza di reattività alla vita e ai suoi accadimenti: alla sanguinosa morte del vecchietto, trucidato praticamente senza motivo dal suo amico, il tutore della legge non può che opporre l’asettica piattezza del suo pasto tiepido consumato in famiglia senza troppa convinzione, mentre alla morte della moglie di un collega, il poliziotto dell’ultimo segmento vorrebbe opporre il divertimento indifferente e colorato della discoteca, anche se la monotonia del lavoro lo richiama subito all’ordine. A ben vedere, la violenza che Tam intende illustrare qui non è tanto quella del sangue, che diventerà spesso vero e proprio tratto pittorico in alcuni dei suoi film, come The Sword, Love Massacre o Nomad; piuttosto, è la violenza insita nell’indifferenza e nella monotonia del quotidiano o nella perdita dell’affettività a costituire la vera matrice di tutte le dinamiche sociali esaminate dal regista in diversi lavori televisivi, che se pure come nel caso dell’episodio citato non giungono mai a uno “scioglimento catartico” (Alberto Pezzotta, L’opera televisiva di Patrick Tam in A. Pezzotta –a cura di – Patrick Tam. Nel cuore della New Wave, CEC Udine, 2007, p. 66) conservando una struttura aperta e non conclusa, riescono a far emergere una società già consumata da se stessa prima ancora di rendersi riflessione dei cambiamenti di cui è protagonista. Tam filma la realtà nell’atto stesso in cui essa si va compiendo, provocando dunque uno shock culturale inaudito per chi quella realtà ancora non ha i presupposti giusti per analizzarla rischiando il corto circuito. E proprio per questo la struttura aperta e non conclusa voluta da Tam in quest’episodio rispecchia pienamente il farsi e disfarsi della società, che già assiste attonita e indifferente al suo disfacimento e alla sua latente follia.

Lo shock prodotto dai lavori televisivi di Tam ebbe però molto più a che fare con l’altra tematica a lui cara, quella della condizione femminile, che non alla violenza e alla criminalità. La “nuova donna” filmata dal regista era infatti una donna spesso consapevole della sua posizione nel mondo al punto da instaurare contemporaneamente una relazione con due uomini, come la protagonista del primo episodio di Seven Women, Liu Wing–seong, che fece particolarmente scalpore all’epoca in cui venne trasmesso, tanto da suscitare in Tam l’rrefrenabile voglia dello sberleffo ai danni dello spettatore nel terzo segmento del terzo episodio della serie citata, On Sai, Yeung See–tai, May Lee. Qui infatti, le avventure e disavventure sessuali femminili vengono soltanto descritte e mai mostrate, con buona pace di chi fremeva per vedere qualche altra scena morbosamente piccante (almeno per l’epoca). Se, come detto da Mary Wong nel suo saggio riprodotto sul catalogo della retrospettiva, Patrick Tam and the New Woman, la presunta liberazione della donna viene ridotta a semplice promiscuità sessuale nel primo episodio senza indagare sulla personalità della ragazza, è anche vero che Tam spesso preferisce mostrare in maniera analitica senza dare alcuna possibilità di fuga interpretativa, limitandosi a sfogare il suo innato gusto per la provocazione. Altrove, però, come nel secondo episodio della serie, Miu Kam–fung, lo sguardo “clinico” del regista sulla condizione femminile si fa più incisivo, impietoso e crudele, in uno dei suoi lavori forse più godardiani, sebbene l’episodio contenga anche una citazione da Marco Ferreri nella sequenza di “balletto” che il marito, la moglie e l’amante fanno per entrare in macchina. Durante il panel a lui dedicato in un pomeriggio del FEFF, Tam ha però tenuto a precisare che le sue non siano in realtà vere e proprie citazioni, ma semmai ricordi; Godard resta in ogni caso uno dei suoi numi tutelari, e la struttura dell’episodio tre di Seven Women lo dimostra ampiamente. La storia sembrerebbe molto semplice: una moglie drogata di shopping e di assenza di vera emotività cerca di far finta di non vedere il palese tradimento che il marito perpetra ai suoi danni prima con un’amica e poi, suicidatasi questa, con un’altra ancora, anche se i segni della schizofrenia del suo vivere iperconsumista lasciano intravedere un’infelicità e un reprimere il proprio sentire che ben si accorda con i deliri autoreferenziali del marito. Ancora una volta, Tam non vuole discutere né dare una facile via di fuga al suo personaggio, una donna che non sa dibattersi né volersi ribellare a una condizione che crede a lei propria e indiscutibile. Viceversa, il regista preferisce disseminare qua e là, attraverso le roboanti parole citate dal marito, quelle possibili vie alternative che la donna potrebbe avere se la sua condizione fosse davvero scevra da sovrastrutture culturali e sociali. Il marito in realtà, però, legge in continuazione stralci riguardanti i diritti e i doveri della donna moderna, vera dea dell’emancipazione presunta, solo per glorificare il proprio ego e la propria libertà autentica, e qui è insita l’ironia da cui l’opera è permeata. Nel microcosmo dell’episodio, la donna non riesce ad avere una vera voce in capitolo rispetto agli accadimenti esterni perché non sa come dar corpo e voce ai propri desideri e pensieri interni, congelati in un eterno e meccanico ripetersi di cliché pubblicitari, simili alla sequenza patinata di sesso fra lei e il marito, che ricorda tanto gli spot di un bagnoschiuma o di un prodotto qualsiasi per famiglie produttive e dunque felici. Tam forse non mira a porre in questione il concetto stesso di felicità, vera e propria tara della società consumistica occidentale di cui, volente o nolente, la Hong Kong sotto il protettorato britannico degli anni ’70 fa in qualche modo parte. Ma sicuramente il suo concentrarsi sul contrasto quasi “isterico” fra l’inazione della moglie, che dichiara di sentirsi felice solo quando fa la spesa, e il ripetere a pappagallo frasi altrui da parte del marito, lascia scattare, questa volta sul serio, un vero e proprio corto circuito, uno svuotarsi di senso in ogni recesso più nascosto della vita, come se nessuno avesse scampo e la società, ancora una volta, non sia altro che un cumulo di prodotti e scorie di sentimenti rimossi, come lo è di violenze perpetrate nel disinteresse generale. Lo sguardo di Tam, allora, artista che registra la realtà in presa diretta senza che lei voglia ancora accorgersene, si trasforma in occhio impassibile e insieme emotivo, volto a far riaffiorare quell’affettività forse eccessiva, incongrua ma senza dubbio autentica con cui i suoi personaggi a venire si ritroveranno a dover fare i conti, persi fra l’accettazione del dolore, dello squallore, della codardia o della paura di sé e dell’altro, e l’abbandono alla violenza (o alla dolcezza) del sentimento.