Il quasi cinquantenne Veit Heinichen rappresenta un bell’esempio di scrittore europeo.

Giornalista, editore e scrittore, è tedesco, pubblica i suoi libri (anche) a Vienna, ma vive a Trieste dove sono ambientate le avventure del commissario capo Proteo Laurenti.

Entra così a far parte di quella ristretta cerchia di giallisti stranieri che hanno trovato particolarmente attraente il nostro paese tanto da ambientarci i loro romanzi (si pensi alla Nabb, a Dibdin, alla Leon) anche se poi scrivono nella loro lingua madre e vengono tradotti nella nostra lingua come normali scrittori d’Oltralpe (in verità quelli della Leon no: l’autrice infatti preferisce avere la libertà di parlare del paese che la ospita senza permettere ai lettori del luogo di conoscere le sue talora pungenti osservazioni).

La scelta di Heinichen a prima vista sembra azzeccata.

Trieste non è mai stata visitata, tranne qualche eccezione (un vecchio Scerbanenco, Sergio Miniussi e lo sloveno Verč), dal noir europeo, pur trovandosi, almeno fino a qualche anno fa, in un’invidiabile posizione di frontiera tra i due blocchi contrapposti protagonisti della Guerra Fredda; la bora e lo scirocco, qualche locale nostalgicamente asburgico e un paio di astute rimembranze sveviane contribuiscono a dare spessore alla location.

Il protagonista, poi, è debitamente in crisi con una moglie, Laura, invaghitasi di un assicuratore, due figlie a studiare agli antipodi della nuova Europa (Berlino e Napoli) e un adolescente che sente le sirene di una vita spericolata post-muro di Berlino. E, a non creare un eroe troppo romanticamente straziato dalla sua vita privata, ecco ogni tanto un bel tocco umoristico: quando si sporca i pantaloni e la gente crede che se la sia fatta addosso; o quando, nel bel mezzo di un’inchiesta, s’immerge in un cassonetto pieno di rifiuti di pesce contaminandosi per un discreto numero di giorni con l’inconfondibile odore; per non parlare di un sogno erotico in cui fa aspettare la sua bella perché ha un fiero ma poco romantico attacco intestinale.

Anche l’intreccio, almeno nella prima parte, regge bene: vecchi odi che resistono dai tempi dell’esodo istriano provocato dai titini; nuovi affari in cui armi, droga e pesca intrecciano i loro sentieri malavitosi; qualche revanscismo neofascista a far paventare pericolosi ritorni di fiamma.

Ma proprio qui, quando l’autore avrebbe dovuto far decollare la vicenda, alcune discutibili scelte narrative (tutte necessarie?) gli impiombano le ali: un eccesso di vocazione didascalica quando si tratta di spiegare al lettore germanofono la complicata storia della Venezia Giulia o anche soltanto la compresenza e la rivalità nelle indagini tra polizia e carabinieri); un blando dongiovannismo del protagonista che, pur disperandosi per l’abbandono da parte della moglie (forse avvertito più sul versante domestico che su quello erotico), non si esime dal corteggiare (e sognare) l’affascinante sostituto procuratore croato Živa Ravno; una strizzata d’occhio al lettore colto amante di Svevo (l’ennesima sigaretta di Laurenti che afferma – prima a se stesso che agli altri – di non aver ripreso a fumare); e magari (quando ci presenta la casa piena di rifiuti di Bruna Saglietti, separata in casa, col marito però che è andato ad abitare al piano superiore pur senza più frequentarla) un amo gettato all’appassionato di noir che non ha dimenticato lo strano condominio triestino di Miniussi in I peccati del corvo.

E lo scioglimento finale della vicenda lascia qualche zona d’ombra che non sembra tanto frutto di una scelta meditata – sciasciana – dell’autore quanto piuttosto di una certa stanchezza nel tirare le somme di un intreccio dalle molteplici ramificazioni.

Questo I morti del Carso è una prova contraddittoria dunque: in ogni caso un esordio dignitoso (che vede peraltro già pubblicati in Italia i volumi successivi della serie) che, complice il Natale, ci fa essere per una volta più larghi nella valutazione.

 Voto: 6.5