Biopic ispirato alla vita di Domino Harvey, figlia dell’attore Laurence Harvey (The Manchurian Candidate), prima modella, poi cacciatrice di taglie.

Archiviata come curiosità la collana feticcio di Keira Knightley dalla quale penzola una delle tavolette del gioco (del domino appunto…), e che fa tanto pendant con la collana indossata da Muccino Silvio in Il mio miglior nemico (con i dadi però…), Domino di Tony Scott (fratello del più famoso Ridley) non riserva sorpresa alcuna, né sul piano del racconto, con il ricorso al sempre più diffuso inizio in medias res, né su quello dello stile.

Riguardo a quest’ultimo Scott non si allontana di una tacca da quello videoclipparo che lo contraddistingue da un po’ di tempo in qua, e che in buona sostanza significa montaggio ellittico, fino a sconfinare nell’inintelligibile (a testimoniare l’impossibilità di raccontare una vita frammentata e tutta di corsa?) e fotografia desaturata, sporca, sabbiosa.

Difetti? Tanti: alla lunga le peripezie del montaggio stancano (due ore…), e i personaggi sembrano buttati lì per caso, giusto il tempo di essere cancellati e ripresi un attimo dopo ma solo per sparire di nuovo nelle pieghe del montaggio.

Altro difetto: un ingiustificato buonismo terzomondista con l’afgano autista del terzetto di bounty-hunters (Domino/Knightley, Mosbey/Rourke, Choco/Ramirez) che devolve la considerevole cifra di 10,000,000$ ai suoi conterranei.

Se si voleva raccontare una vita che pare aver scelto scientemente di bruciare la candela dalle due parti, ci voleva un altro narratore e soprattutto un altro sceneggiatore (tra l’altro la storia si ferma prima della morte di Domino, rinvenuta cadavere il 27 giugno 2005 in un cottage di West Hollywood).

Si salva soltanto la citazione transgender della banda di rapinatori di banche di Point Break: dai Presidenti alle First Lady, nell’ordine Nancy Reagan, Jackie O., Barbara Bush (la babbiona per antonomasia!!), e infine (come dubitarne?), Hillary Clinton.

Magari solo questo vale un’occhiata.