Romanzo d’annata che ci introduce in quella intrigante regione multietnica che è la Venezia-Giulia, già scelta da un altro autore non italiano, il tedesco Veit Heinechen che ha deciso di ambientare le sue storie a Trieste; lo stesso fa Sergej Verč;, quasi sessant’anni, cittadino italiano di etnia slovena, che non a caso ha pubblicato il romanzo nella sua lingua madre.

Attraverso le gesta del commissario Benjamin Perko, detto Beno, l’autore ha l’ambizione di rappresentare il tetro immobilismo della società triestina e la rassegnata autocommiserazione della componente slovena; nel far rientrare il suo eroe a Trieste dal suo luogo di lavoro, Eboli, riesce persino a esprimere una certa ammirazione per la società meridionale, pur infiltrata pesantemente dalla criminalità organizzata: il capoluogo giuliano, a suo dire, col suo perbenismo post asburgico è anche peggiore.

La vicenda si snoda tra un passato che ritorna (il convulso finale della Seconda Guerra Mondiale con tedeschi fuggiaschi, collaborazionisti che cambiano casacca e semplici cittadini coinvolti in cose più grandi di loro); un presente di connivenze tra criminalità e istituzioni dello stato, pur di garantire un regolare commercio di manodopera a basso costo tra la vicina Jugoslavia e l’Italia, vista come un nuovo Eldorado; e un futuro d’amore, ancorché travagliato, tra l’integerrimo commissario (sul lavoro, ché la sua vita priva e sessuale è abbastanza turbolenta) e una fanciulla giuliana incontrata per caso e coinvolta nelle morti che funestano la città. Il tutto sullo sfondo di torbidi e talvolta incestuosi rapporti tra i protagonisti della vicenda.

Avrete già capito che la carne al fuoco è davvero troppa (mancava solo qualche accenno alla prossima implosione della Jugoslavia e non ci saremmo fatti mancare nulla): il piglio moralistico del commissario risulta fastidioso, talvolta pesantemente didascalico nel segnalare le magagne della società triestina italo-slovena; piuttosto che rappresentare attraverso i dialoghi e l’azione l’ottica critica da cui muove, Verč preferisce spesso la tirata polemica, la predica, aggravate da uno stile involuto: da un lato inutili esibizioni di tecnicismi della procedura poliziesca, dall’altro, a uso e consumo del lettore sloveno d’oltreconfine, burocratiche spiegazioni relative alle funzioni dei nostri dirigenti delle forze dell’ordine. E stendiamo un velo pietoso sulle imbarazzanti metafore escogitate dalla fertile fantasia dell’autore: il fuoco d’artificio che “scoreggia” in cielo o la “mascolinità” del commissario che pulsa dopo un rovente abbraccio con una donna.

Ad aggravare definitivamente il quadro segnaliamo anche una decisa tendenza al melodramma (la storia d’amore da fidanzatini in crisi ormonale del commissario con Jasmin); una fastidiosa venatura pedagogica (in appendice c’è una nota storica che riassume le vicende di Trieste); un accenno, del tutto fuori luogo, a supertecnologici universi bondiani (il sotterraneo a cui si accede attraverso La colonna di Rolando che dà il titolo al romanzo).

Ecco quindi come una buona idea (ambientare un noir in una terra di confine con tutto il suo carico di questioni, anche storiche, irrisolte) può essere buttata alle ortiche per la problematica padronanza dello stile e dell’intreccio. Ben altro risultato produsse la prima storia poliziesca triestina nei lontani anni Sessanta quando I peccati del corvo di Sergio Miniussi ritrasse senza sconti ma con un’impressionante asciuttezza la medesima atmosfera soffocante del capoluogo giuliano.

Voto: 4.5