Premiato con l’Oscar come miglior film straniero, Il suo nome è Tsotsi di Gavin Hood è un film a coproduzione inglese-sudafricana basato su un romanzo di Athol Fugard, chiamato semplicemente Tsotsi, scritto originariamente nel 1980 e di prossima pubblicazione anche in Italia. Tsotsi è un termine slang usato nel ghetto di Johannesburg che indica genericamente i teppistelli che passano il tempo ad uccidere per pochi spiccioli o senza nessuna ragione plausibile. La vicenda è quella di un ragazzo che ha rimosso ogni ricordo del suo passato, nascondendosi dietro il paravento del suo soprannome - Tsotsi, appunto. Indiscusso e impenetrabile leader della sua gang attuale, composta dagli amici Butcher, Die Aap e dal nuovo arrivato Boston, acculturato ed intelligente, Tsotsi decide ogni volta come e chi colpire, per il puro gusto di farlo. Apparentemente freddo e spietato come la notte, Tsotsi in realtà non riesce a comporre se stesso e la propria immagine in un insieme coerente. La sua mente, immemore del passato, viene definita nel libro come “un continuum di oscurità” con il buio circostante, da cui solo la pelle lo separa.

Tre avvenimenti imprevisti intervengono però ad interrompere l’equilibrio di un’identità senza nome, minando l’apparente sicurezza di Tsotsi: innanzitutto le domande di Boston, che chiedendo innocentemente al capo Tsotsi notizie sul suo passato insinua il veleno della memoria nella mente del ragazzo. Boston, che in un eccesso d’ira omicida viene pestato a sangue da Tsotsi, è artefice della prima vera spaccatura di senso nel vuoto interiore di Tsotsi: esprimendo la propria, assurda pietà nei confronti della vittima di turno, Boston fende inconsapevolmente il cuore del protagonista verso un guizzo di luce improvvisa, figurando come preludio alle successive esperienze di risveglio interiore vissute da Tsotsi, che si troverà a confrontarsi con il passato rimosso e con la pietà. Innanzitutto, l’incontro fortuito con un neonato - che nel libro viene semplicemente abbandonato nelle mani del ragazzo da una donna disperata, mentre il film introduce una variante in cui Tsotsi, rubando una macchina dopo aver sparato alla sua proprietaria, si ritrova il neonato nel sedile posteriore, causando così affannose ricerche da parte della polizia locale e dei facoltosi genitori del bimbo. Lentamente, Tsotsi rivede nel bimbo il se stesso di ieri, cominciando a considerare il mondo con occhi diversi e potenzialmente vicini a quell’incomprensibile idea di decenza di cui Boston gli aveva parlato, cercando di aprirgli gli occhi. Poi, durante una solitaria caccia all’uomo - uno storpio che, nella sua deformità, appare al giovane come la quintessenza della vita, col suo carico di dolore e la sua sofferenza  - il protagonista vivrà un’inedita empatia con la vittima, arrivando a risparmiarla perché, in fondo, non c’è alcun motivo reale che lo spinga ad uccidere. E lentamente, cominciano ad emergere i ricordi e l’identità sepolta di una vita strappata a se stessa: in dormiveglia, Tsotsi ricorda il suo nome, David, e sua madre malata di lebbra; e poi le lacrime di solitudine, la fuga rabbiosa da casa verso il fiume, verso la sua prima gang, senza pensare più a nulla, senza più credere a nulla, notti passate ad accumulare altre notti sperando di sopravvivere all’oggi, uccidendo per non morire. Finché, trovando una vaga forma di riscatto nel bimbo, un nuovo se stesso che può farcela ancora, un David a cui la vita può concedere forse qualcosa, Tsotsi deciderà di sciogliere la gang, ormai disertata da Butcher e mutila di Boston, che Tsotsi decide di andare a cercare, forse per perdonarlo o semplicemente per curarlo e sentirlo parlare, vederne la carne rossa di dolore e viverne l’intensità, così come ha imparato a vivere l’intensità della presenza del bambino, fino all’ultimo protetto e nascosto dal mondo nonostante l’aiuto di una donna, decisa a sfamarlo. Ma poi, tutto scivola verso la disperazione: il finale del film - molto diverso da quello del libro, ben più crudo e di significato totalmente opposto - ci regala una vaga speranza di redenzione del ragazzo, che forse avrà capito qualcosa della vita.

Questa in breve la trama del film che, pur presentando molte analogie con il romanzo di Fugard, non riesce però a rievocarne la livida intensità, in una prosa caratterizzata da un pessimismo serrato e straziante che conferiscono alle pagine un tono a volte solenne, a volte raggelato, come a voler far immedesimare chi legge nella mente alterata del protagonista, vero e proprio animale regredito a livello preumano per il quale le emozioni e i legami basilari dell’esistenza - famiglia, amore, dolore, amicizia, fede in qualcosa di ulteriore  - sono concetti al di là di ogni possibile apprendimento, non solo perché sconosciuti ma anche perché incomprensibili. Il film, infatti, non dimostra di decollare mai veramente, mostrando un assenza di approfondimento psicologico agghiacciante e non spiegando abbastanza l’evoluzione interiore del protagonista. Tutto è banalizzato a suon di rap, parolacce, una sottotrama poliziesca che nulla aggiunge alla vicenda originaria ma anzi la svilisce, riducendola ad un mero gioco tra gatti e topo, con tanto di commozione buonista conclusiva e personaggi di contorno - vedi il vecchio storpio incontrato da Tsotsi - ridotti a semplici macchiette, laddove nel libro acquistavano una statura di verità dolente. In sostanza, “Il suo nome è Tsotsi” è un brutto film, piatto e senz’anima come i peggiori film per la televisione, che non riesce mai a coinvolgere veramente rendendo un pessimo servizio a Athol Fugard, il cui bellissimo romanzo meritava un trattamento migliore. Meglio dunque attendere il libro e goderne il sapore autenticamente più amaro, piuttosto che accontentarsi di questo surrogato senza spessore.