And the winner is…

Premio per la peggiore fiction dell’ultimo decennio: L’uomo che sognava con le aquile, in onda la scorsa settimana su RaiUno il 2 e il 3 gennaio.

Abbiamo aspettato una settimana per ragionarci sopra a mente fredda; e abbiamo resistito alle provocazioni di Aldo Grasso che sul Corriere della Sera ne ha parlato allegramente male, prendendo di mira soprattutto l’interpretazione di Terence Hill e Michelle Bonev; ma alla fine la tentazione è stata più forte di noi e abbiamo ceduto.

Sia chiaro: in tv, in tempi più o meno recenti, si è visto di peggio, ma quello che maggiormente ci ha infastidito in questa miniserie è stata la pedagogica insistenza su certe scelte narrative che sembrano cavalcare l’onda del riflusso buonista e anticipare persino alcune esternazioni della cittadina Ciampi sulla superiore bontà del popolo meridionale.

Vi ricordate la Piovra e tutti i suoi nipotini? L’immagine dell’Italia, e del Sud in particolare, non ne uscì benissimo, non foss’altro perché molto spesso gli eroi e le eroine facevano una brutta fine nello scontro con la criminalità organizzata: d’altra parte, pur concedendo abbastanza allo spettacolo, la tv seguiva la cronaca che non permetteva facili evasioni. Scoppiò pure una polemica cultural-politica che mirava in sostanza a mettere la sordina a queste fiction che, invece di parlare delle cose buone che il nostro paese e il meridione offrivano, erano sempre lì a esportare mafie e camorre.

Da allora molta acqua (politica e televisiva) è passata sotto i ponti e così si è passati all’estremo opposto: dalla truce rappresentazione di uno stato confiscato dalle cosche al delicato Far West di casa nostra.

Pensate: un avvocato calabrese, che ha speso la sua vita nel volontariato perdendo in Africa moglie e prole, decide di tornare al suo paese in Aspromonte e ritrovare le sue radici, fabbricando formaggio secondo l’antica ricetta dei padri.

Contro di lui (interpretato da Terence Hill), che caracolla a cavallo su e giù per le balze pietrose dell’estremo Appennino Calabrese come ai bei tempi degli spaghetti-western, congiurano le astruse norme UE sull’igiene degli alimenti, un sindaco sensibile alle sirene (immobiliari) del turismo e un losco finanziatore del Nord che cerca di arraffare i contributi UE per poi svignarsela.

Al suo fianco, via via, si schierano non solo una pizzicagnola locale da sempre innamorata, ma anche la cognata del sindaco, americana e traduttrice, e suo figlio, appena operato di tumore al cervello e venuto in Aspromonte per ritemprarsi.

In mezzo intrallazzi vari, un collaboratore sordomuto che fa formaggi, paesani primi succubi del sindaco poi schierati con l’ex avvocato, aquile che volteggiano sui picchi: e soprattutto il fanciullo che migliora a vista d’occhio a forza di mungere pecore e capre e frequentare aquile e cani, nonostante una rovinosa caduta da uno sperone roccioso.

Il finale lo lascio immaginare: il nostro eroe supera tutti gli ostacoli, pur piegandosi alle norme UE; il sindaco, mascalzone ma non troppo, abbandona il progetto faraonico che deturperebbe il paesaggio calabrese; il fratello riconquista il figlio e la moglie, che ha avuto una piccola sbandata e ha scambiato un solo castissimo bacio con l’attempato cow boy di casa nostra. Naturalmente alle falde dell’Aspromonte nessuna traccia di criminalità organizzata e l’unico veramente cattivo finisce per essere il perfido nordista.

Questo immangiabile minestrone ha raccolto oltre 10 milioni di spettatori: e, naturalmente, hanno ragione loro.

Aspettiamo rassegnati il seguito di questa “Linea verde” in fiction: dopo il formaggio, il protagonista sarà l’olio o la sardella?

 

Voto: 3