Per essere perfetti.

Che cosa ci manca per essere perfetti, cosa ci manca per smettere di avere paura? Quante volte abbiamo superato un limite, quante volte lo abbiamo davvero, consapevolmente, voluto fare, così: come se fosse un respiro profondo?

Quello che impressiona, a volte, quando galleggi nel vuoto, è la mancanza di suoni.

Sulla linea di confine, si corre in punta di piedi, in silenzio, persino le grida diventano mute. Perché sulla linea di confine c’è il rischio di disturbare il sonno di qualcuno. Il nostro.

Sulla linea di confine i sogni ti prendono per mano e ti sorridono. Gli incubi fanno parte del gioco: corrono in punta di piedi, pervasi da grida mute, scappano assieme a te.

Ma una linea di confine possiede un colore?

Nel blu.

C’è quella particolare ora che viene definita: heure bleue… La fascia temporale che precede il sorgere del sole, quando non è più buio ma non è ancora giorno. Sembra che in quella particolare ora, le cose, soprattutto i pensieri, si confondano. Durante la guerra, quello, era il momento in cui i cecchini riuscivano a colpire più facilmente e la gente moriva. Durante quel frammento sospeso di tempo, gli assassini uccidono più volentieri. Aumentano i casi di raptus. E le vittime sentono la paura come una presenza pulsante: infiltrata dentro ad ogni singolo battito di cuore.

L’ora blu ricorda la zona morta celebrata da Stephen King, il luogo ove la percezione si distorce al punto che puoi entrare in una dimensione talmente sospesa da renderti in grado di vedere quello che gli altri non vedono, di sentire, di toccare con mano emozioni diverse. Prevedi quello che sarà e cominci a fare i conti con quello che sei e con ciò che auspichi di poter divenire. Quindi devi affrontare la tua paura; ti tocca proprio.

Paura! sempre quella: compagna fedele e amante perversa.

Paura nel villaggio dei morti viventi.

C’è questo film, bellissimo, l’ultimo di M. Night Shyamalan: una comunità ottocentesca vive in un posto paradisiaco, isolata dal mondo e tutto funziona, tutto è calibrato e tutto sorride, peccato che ci siano creature mostruose che circondano il paese, tenendolo in qualche modo in assedio. Non ci si può allontanare da quel paradiso. Bisogna restare lì, nel villaggio, e vivere la vita assaporando una felicità continua, quasi obbligatoria.

Nel villaggio tutto si confonde e il genere horror cambia aspetto e muta diventando altro. Proprio come intendo io debba essere il genere: danzante sulla linea di confine, siempre. Come in una rivoluzione, come dentro l’incantesimo scandito da un segnacolo di grida inespresse.

The village non è solo un film. E' una macchina perfetta: scandita da un ritmo che segue dinamiche precise. Evidentemente frutto di uno storyboard rigoroso, senza però peccare di freddezza. Perché non c’è niente di gelido in questo film, tranne l’occhio acuto di una ragazza cieca che sente le cose e sente i colori e avverte che la confusione degli intenti fa parte della sua vita, dell’esistenza che l’hanno costretta a vivere: un finto paradiso può essere mille volte peggiore di un inferno nudo e crudo. Fondamentalmente una storia che parla di dolore. Di fantasmi che incombono e di mostri che possono e debbono arrivare. Una grandissima metafora per certi versi junghiana, sulla coscienza collettiva condizionata dalla follia dei singoli elementi che la compongono. Metafora sociale, sì: forse, ma non solo. Lo abbiamo già detto, sulla linea di confine di un sistema tutto si confonde e niente è ciò che sembra.

Il rosso è il colore del sangue e quindi della paura, ci dice Shyamalan. Il giallo neutralizza i mostri che incombono. Giallo come un raggio di sole. Ma quale colore ci può rendere un minimo di redenzione. Come possiamo dipingere la speranza?

Forse la chiave di visione completa la può avere solo una ragazza cieca. Una femmina, che è creatrice per natura. La protagonista non vedente del film è l’unica che può andare oltre, passeggiare sulla linea di confine. Lei è in grado di sconfiggere i mostri perché riesce a cogliere nel mondo che la circonda qualsiasi sfumatura, gli odori e i sapori, i suoni dei colori. Ma soprattutto può assaporare fino in fondo le emozioni e le atmosfere.

Un’intelligente riflessione sul dolore, e sulla paura, The Village. Mister Mezzanotte è dei nostri. Dopo aver scritto e diretto Sesto senso – senz’altro uno dei film più belli degli ultimi dieci anni, egli riesce ancora una volta ad emozionare veramente. Entra nel soprannaturale e poi ne esce, dentro e fuori come in un amplesso. I mondi che riesce a creare ti restano addosso e non se vanno facilmente. Lui ci parla d’innocenza e di amore; ci dice che non è possibile sconfiggerli, nonostante il vuoto. E come in Sesto senso, solo alla fine del film capisci che film hai visto…

Shyamalan fa così: ci rivela dei segreti all’improvviso, e quando pensi di aver capito tutto, ti rendi conto che c’è qualcosa d’altro. Corre sulla linea di confine e sussurra per non svegliarci dai sogni e dagli incubi.

Attraverso la piramide oscura

Ma riusciremo mai a capire il colore che pervade la zona morta. Riusciremo a comprendere il senso di un limite per superarlo?

Sul confine del nero, c’è la piramide del lato oscuro della luna: un raggio colpisce e il prisma lo divide facendolo fuoriuscire moltiplicato nei colori dello spettro solare.

Tutti quanti i colori racchiusi in un unico raggio.

Ogni colore un’emozione diversa.

Al confine del nero: tutto quello che siamo.

Tutto quello che vorremmo diventare.

Tutto.

Alla prossima amigos.

NERO