C’è un altro olocausto, sia pure su scala minore rispetto alla Shoa, per numeri ma non per atrocità. Fu consumato al confine mai davvero definito che separa l’Italia da quella che una volta si chiamava Jugoslavia di Tito e oggi consiste di frammenti balcanici in stato di perenne conflitto. Le foibe costituirono l’inferno dei vivi per migliaia di cittadini segnati dall’irrazionalità della geopolitica, delle ideologie, dell’odio razziale. Diego Zandel, figlio di esuli fiumani, ne ha fatto da tempo un punto di forza della sua narrativa, che si snoda sul filo sospeso fra il thriller e il viaggio nella memoria. Tanto più nel suo nuovo romanzo, Eredità colpevole, dove ripercorre a ritroso una vicenda che, seppure non lo vede diretto protagonista, apre squarci di dolorosi retaggi del suo passato.

Lo si capisce ancora di più dal cognome del protagonista, che racconta in prima persona: Lednaz, trasparente anagramma di Zandel. Come in parte il nome, Guido. Giornalista e scrittore, viene incaricato dal suo giornale di seguire il processo al criminale di guerra Strcic, modellato su Piskulic, capo della polizia segreta di Tito. L’imputato viene definito non giudicabile dai tribunali italiani, perché le sue orribili malefatte si sarebbero consumate in territorio jugoslavo. Autore di questa precisazione giudiziaria è il giudice Luigi La Spina, che all’inizio del libro viene assassinato con modalità non dissimili da quelle dei terroristi negli anni di piombo.

Lednaz era molto amico del magistrato, ma anche distante dall’estremismo di destra che considera la ferita delle foibe non rimarginabile e persegue una vendetta perpetua. Eppure il giornalista non crede alla rivendicazione dell’omicidio da parte di una sedicente “Falange Nera”. Inoltre, quale sincero democratico e progressista, Lednaz ritiene che si debba ripristinare la pacifica e serena convivenza di etnie in quella sorta di Palestina confinaria delle sue origini.

Con l’aiuto del capitano dei carabinieri Lucio Alvisini, ex funzionario dei servizi di sicurezza italiani, s’imbarca in un’inchiesta che ha poco del giornalismo investigativo e molto o moltissimo dell’urgenza di scoprire una verità utile a riconciliare giuliani e slavi.

Purtroppo per Lednaz, la posta in gioco va ben al di là delle questioni forse insolubili dell’irredentismo e della persecuzione titina di persone la cui unica vera colpa era la nazionalità. Il vero movente dell’uccisione di La Spina è l’occultamento di un segreto che riguarda la nascita e il vero nome di un politico al sommo dell’establishment romano. Lednaz lo scopre mediante due personaggi, loro sì legati all’estrema destra. Il principale sospettato, Gabriele Bettarin, ha chiuso con gli ideali nazifascisti, facendosi frate. L’altro, Fabrizio Monticelli, fondatore di “Movimento nuovo”, sembra più interessato al sogno impossibile di una reconquista di Fiume che alle eliminazioni esemplari di uomini della legge ritenuti complici dell’ingiustizia che ha strappato all’Italia l’Istria.

Un viaggio a Trieste motivato dalle indagini mette sulla strada di Lednez l’affascinante Valeria Mastrantonio. Non una complicazione sentimentale, bensì un nuovo ingranaggio del meccanismo di suspense che rende Eredità colpevole sempre di più un voltapagina.

Diego Zandel si esprime qui con tutta la maestria maturata lungo un arco di esperienza da scrittore raffinato e insieme deciso a infondere nella sua prosa una sincera vena d’impegno che travalica di gran lunga ogni vicissitudine autobiografica.