Anno 694 ab Urbe Condita, dalla fondazione di Roma,

una data che in seguito sarà ricordata come il 58 a. C.

Nei pressi di Volterra.

«Guarda, Jorgas: le sentinelle sono appostate là, dove vedi il bagliore della fiaccola».

Nel buio assoluto che dominava i colli dopo il temporale, gli occhi dell’assassino scintillarono come gioielli nella forgia di un demone.

Uno sguardo acuto, di un uomo violento, abituato all’inganno e non alla pietà. Anche nella notte era evidente la stazza da gladiatore, i muscoli possenti pronti all’azione. I capelli erano una lunga criniera ricciuta del colore del corvo. Si era denudato per entrare nel canale. Allacciate sulle spalle teneva le sue armi. Due gladi iberici più lunghi di quelli abitualmente impiegati dai romani, e un pugio, un pugnale dalla lama triangolare, infilato nella guaina assicurata al petto.

Seguì l’indicazione della guida, scorgendo il riflesso di una torcia che diffondeva un alone fosco nella notte. In fondo al canale che alimentava la cisterna sotterranea della villa di Quinto Fabio Murilio, edile di Roma, ladro delle casse della Res Pubblica, forse occultamente legato a Crasso. Il suo bersaglio di quella notte.

Il bagliore della fiamma veniva da una postazione all’interno della ragnatela di gallerie diffusa tra i corsi d’acqua sotterranei e il canale. L’ingresso più diretto per entrare nelle putride viscere della villa di Murilio. Non l’unico, però. Jorgas non era solo. Con sé aveva la sua Obscura Legio, il manipolo di reietti tagliagole che lo avrebbero seguito nell’Ade, perché era da quell’inferno che Cesare li aveva ripescati per portare a termine il lavoro.

«Guidaci all’ingresso, Gneo», disse Jorgas con una voce bassa, simile al rumore del vento tra le pietre di una caverna.

La guida, un guercio vestito di stracci, con il viso purulento, segnato da malattie contratte nei postriboli, si fece indietro agitando la mano in segno di diniego.

«No, no, signore. Non erano questi i patti. Io non entro in quella tana. Dicono che la Donna con la Maschera coltivi poteri occulti e malvagi e non si limiti ad assistere ai baccanali dell’edile. Io non…»

«Tu ci porterai là dentro, guercio!» intimò Jorgas. «Non vorrai farmi pensare che hai accettato doppia paga per consegnarci nelle mani dei cani di Murilio?»

Nell’oscurità, alle spalle di Gneo, qualcosa si mosse. Un fruscio appena, accompagnato dal sibilo metallico di una lama ricurva che esce dal suo fodero. Il guercio non poteva vederlo, ma ne sentiva la presenza.

Xifex, l’Egiziano. Sette piedi di altezza, la carne color del bronzo sui muscoli simili a quelli di un ghepardo. Tatuaggi e borchie di ferro. La testa rasata e lo sguardo rosso di sangue. Appoggiò il pugnale sulla spalla del guercio, che deglutì rumorosamente e si affrettò ad assentire.

«D’accordo, d’accordo», sussurrò, «vi farò strada».

Gli occhi scintillanti di Jorgas si velarono per un istante, coperti dalle palpebre, inviando un segnale all’egiziano. Xifex allontanò la lama ma non la ripose. Rapidi, muovendosi tra arbusti e sabbia, si avvicinarono al canale. In lontananza si scorgevano i fuochi empi della villa. Murilio stava festeggiando con i soldi sottratti dalle casse destinate a finanziare l’imminente campagna che Caio Giulio Cesare avrebbe condotto nelle Gallie, per sfruttare controversie territoriali tra tribù elvetiche e invasori germani e imporre il dominio di Roma in quella parte del territorio che ancora non aveva imparato a inginocchiarsi. Alla Repubblica e a lui stesso. Il furto di cui Murilio si era reso colpevole era quindi doppiamente grave, poiché suggeriva il sospetto di un più ampio complotto ordito da Pompeo o da Crasso per sabotare Cesare. Di ciò Jorgas non si curava. Lui era pagato per uccidere e non lasciare tracce. Perciò, quando furono sulla sponda del canale e videro con maggior chiarezza il riflesso delle torce sui muri di pietra dell’ingresso alla cisterna, i suoi occhi tornarono a brillare.

Senza necessità di parole, Xifex serrò il collo di Gneo e gli piantò il pugnale nelle reni, tirando con ferocia verso l’alto. La lama squartò, generò un fiume di sangue grumoso, trascinò a terra viscere e grasso mentre il guercio moriva. Un farabutto di meno. Lasciato scadere il corpo nella terra che gli etruschi secoli prima avevano saziato di sangue sacrificale, Jorgas e Xifex s’immersero silenziosi nell’acqua. Scomparvero sotto la superficie nuotando invisibili sino all’ingresso delle cisterne, certi della benevolenza di Tuchulka, dio della Morte. Gli altri erano già in posizione.