Produce Sam Raimi non solo regista capace ma rabdomante di talenti e iniziative cinematografiche, affidando la regia a Stephen Kay (regista e attore tv). Boogeyman, soggetto e oggetto della pellicola, scaturisce direttamente dalla mitologia della paura: chi si nasconde sotto al letto, nelle ombre proiettate sul muro, nei rumori sconosciuti e dentro allo sgabuzzino? L’ordito cerca di insinuarsi scavando nell’incoscio più profondo ma le nostre corde non vibrano sollecitate dalla prevedibile inquietudine, ovvia deriva dello spavento indotto dalla pece impenetrabile del buio, dalle porte che sbattono, dai temporali coi fulmini a hoc e da scale che conducono verso soffitte e/o cantine maligne di altrettanto malvagia casa sperduta, enfia di maligni presagi e abitanti sgradevoli. E’ piuttosto nella difficoltosa e non sempre rispettata strada in bilico tra spiegazione razionale e irrazionale – e non certamente nelle sequenze ispirate al cosiddetto filone orientale – che la pellicola trova il registro adatto lasciando allo spettatore la possibilità di scegliere la soluzione che preferisce includendo o escludendo gli indizi sovrannaturali disseminati qua e là. Il protagonista (Barry Watson, faccia perennemente stupita) torna sul luogo del delitto dove perse il padre inseguendo la verità per provare a se stesso l’esistenza o meno di un fantomatico Uomo Nero oppure trovare la spiegazione dei delitti che contaminano il suo passato e il suo presente come un cancro, nella personale incapacità ad affrontare i fantasmi che si sa, possono diventare i migliori, perversi compagni di una vita. Trama impalpabile ma non truffaldina,  tensione a scatti e qualche ottima scena (i bambini perduti che chiedono muto aiuto) lo rendono appetibile ma i palati esigenti si astengano, causa possibile insofferenza sbadigliante.