The Master, più affine a Il Petroliere che a Magnolia. Tra quest’ultimo e il primo il segno di un cinema, quello che risponde al nome di Paul Thomas Anderson, che nel crescere con e per mezzo del suo artefice, mostra di perdere qualche scintillio (il tonitruante inizio di Magnolia, croupier al comando di Canadair che risucchiano avventori subacquei, donne che sparano ai mariti e che invece colpiscono i figli che in quel momento passano davanti alle finestre precipitando dal tetto, rane a catinelle…) acquistando di pari passo profondità è maturità così da diventare assai diverso da ciò che abitualmente scorre sugli schermi, condizione che per forza di cose lo consegna a quel ristretto numero di opere che piacerà a pochi e lascerà invece perplessi molti.

Tant’è…

Nel viaggio che inizia su un assolata spiaggia dove ex militari si dedicano a giochi da fanciulli, fa la sua comparsa muta e a tratti sfrenata quello che è uno dei due protagonisti del film, il reduce anni Cinquanta Freddie Quell/Joaquin Phoenix.

La sua traiettoria, con un inizio ma in fondo senza fine, incrocerà per caso quella di Lancaster Dodd/Philip Seymour Hoffman (forse Ron Hubbard, probabilmente no…) leader in cerca di truppe “struppate”da arruolare come neo-seguaci di un qualcosa in divenire (una terapia rivoluzionaria in grado di guarire tutto ciò che sta tra il cancro e la malattia mentale?). Nell’incontro dei due c’è in un buona parte il succo di The Master che come spesso accade con i film che giudichiamo importanti semina più domande che risposte: si tratta forse della nascita di un leader o invece del suo fallimento come tale? Della ricerca di una qualche forma di cura per il disagio mentale attraverso l’addomesticamento delle pulsioni o al contrario la loro celebrazione con tutta la loro forza anche distruttiva? Dell’inarrestabile attrazione tra due uomini sublimata nel rapporto maestro discepolo o della ricerca di un padre dal quale però non si può fare altro che fuggire (magari a bordo di una moto in pieno deserto…)?

Di una cosa però c’è da esser certi, e cioè che l’interpretazione di Joaquin Phoenix è una di quelle che come si dice in questi casi vale da sola la visione del film. Erano anni che non si vedeva qualcuno così perennemente “in parte”, così disposto, scena dopo scena, sequenza dopo sequenza, a sbranarsi il corpo e l’anima per dar vita ad un personaggio con una dedizione tale da far star male perché è palese quanto debba essergli costato in termini emotivi giungere al punto che gli vediamo agire sullo schermo, anzi oltre quello stesso punto…

Leone d'argento per la migliore regia, Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile (Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix) e premio Fipresci come Miglior Film alla 69. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.