C’era bisogno, dopo tante gelide carezze del noir scandinavo, ritrovare la calda e brutale passionalità di certe atmosfere latinoamericane, specialmente poi se personaggi e situazioni affondano le loro radici negli archetipi dell’hard-boiled statunitense: quella resa immortale da Hammett, Chandler e MacDonald, per intenderci.

Sono passati decenni – dal punto di vista cronologico – e intere ere geologiche – dal punto di vista sociale e narrativo – dagli esordi di Sam Spade, Philip Marlowe o Lew Archer; eppure questo duro romanzo dell’esordiente cinquantenne messicano Guerrero Casasola sembra respirare la stessa aria dei capolavori dei maestri e attingere forza dalla stessa spregiudicata miscela di forti impulsi etici, di un inguaribile e sotterraneo romanticismo e della imprescindibile presenza della violenza metropolitana.

Siamo infatti a Città del Messico, megalopoli sconfinata dove nessuno, tranne pochi fortunati, ha la sicurezza di tornare a casa vivo la sera dopo esserne uscito all’alba; dove è fiorente l’industria dei sequestri di persona, organizzata secondo una struttura a rete che impedisce molto spesso che i mandanti siano individuati; dove la polizia è altrettanto corrotta e violenta dei suoi avversari ed emargina i pochi onesti che vogliono sopravvivere.

L’antieroe di questa storia, Gil Baleares, è un quarantaseienne investigatore privato specializzato in sequestri, ex poliziotto della Judicial che da sette anni ha lasciato il corpo proprio per preservare un minimo di dignità e di rispetto per se stesso; ha un’ex moglie, Ana, che ancora lo intriga, e una figlia (chiamata anonimamente, appunto, “la figlia”) di cui non è sicuro di essere il padre. Vive con il settantanovenne padre Ángel, ex poliziotto anche lui, minato dall’Alzheimer; del brutale agente, un tempo soprannominato il Mastino per i suoi modi tutt’altro che urbani, che a suo tempo si è separato dalla moglie portando con sé il piccolo Gil, privandolo così dell’affetto materno, è rimasto qualche sporadico guizzo: insidia le infermiere all’ospedale e la domestica Lupe; scambia l’acquario per il water e beve continuamente latte e rum; alterna botte di vita con anziani coetanei – prosciugando l’esiguo conto corrente della famiglia – a vuoti sempre più frequenti della memoria.

Gil non è uno stinco di santo, usa la violenza (spaventando a morte un timido corteggiatore della figlia di un amico) e talvolta uccide (anche se si tratta sempre di loschi figuri che mettono in pericolo – direttamente o indirettamente – la sua vita); ma ha un suo codice deontologico che, come il suo antenato Marlowe, lo porta, tra botte ricevute e scorribande nella metropoli, a infilarsi nelle situazioni più pericolose per guadagnarsi il suo onorario: in questo caso deve ritrovare, per conto della famiglia di Mariano Del Moral, imprenditore nel settore dei dolciumi, la figlia Alicia, rapita da ignoti banditi che chiedono un riscatto elevatissimo.

Ma il tortuoso sentiero attraverso il quale Gil riesce a scoprire la banda e a inchiodare i colpevoli in realtà per l’autore è solo un pretesto per ritrarre una città dove è scomparsa ogni forma di pietà umana e dove vige ferrea la legge del più forte, come recita il titolo italiano del romanzo.

Ecco così tra i moltissimi personaggi che affollano le pagine del libro Yayo, lo zio materno di Alicia, ricco, gay e inetto, che è sospettato di essere complice del rapimento; l’ex poliziotto José Chon, folgorato sulla via di Damasco da una conversione religiosa (e qui si accenna alla forte penetrazione della setta evangelica in paesi un tempo cattolicissimi), che si è dato a vendere tacos e a predicare Cristo, salvo impedire alla figlia di coronare il suo sogno d’amore con un povero meccanico; l’altro ex poliziotto Osiel Langarica che si è rifatto una vita tra viaggi, bei vestiti e una fantastica e giovanissima amante olandese, Ginebra; l’ex compagno di scuola di Gil, Inada Yushimo, un giapponese crocifisso da piccolo col soprannome di “Merdagialla”, che ha appreso allora la dura legge del più forte che poi applicherà nei confronti dei suoi nuovi connazionali; un buon numero di poliziotti corrotti che si fatica a distinguere dai criminali che dovrebbero perseguire; infine una folla di oscure presenze impaurite dalla violenza metropolitana, rinchiuse in se stesse, pronte a ogni compromesso pur di sopravvivere, trascinate da questo inesausto vento infernale che soffia sulla città.

Il finale, che, come in ogni noir che si rispetti, presenta il suo bravo colpo di scena finale, pur lasciando all’autore alcune vie di fuga per uno sfruttamento seriale del personaggio – che noi vedremmo con sincero favore – è nero che più nero non si può: nessuna scappatoia consolatoria (che pure sopravvive nei capolavori statunitensi del genere); nessuna assoluzione del sistema con il comodo escamotage di scaricare le colpe del male sui singoli; nessuna luce in fondo al tunnel.

Il meglio che ci si potrebbe aspettare, insomma, da un buon allievo esordiente che sogna di raggiungere (e forse superare) i maestri.

Voto: 7