La spia non viaggia per diporto, bensì per compiti che vanno dalla semplice osservazione, alla consegna o al prelievo di materiali. Passando per quelli che, con il gergo del vecchio KGB, si definivano in russo mokrie dela, lavori umidi, ed in inglese wet works. L’umido in questione è il sangue. Tali incombenze si sbrigavano in quei posti che negli anni ’50 e ’60 l’uomo della strada vedeva solo al cinema o sui rotocalchi. L’esigua categoria dei più colti, ne leggeva in libri tarati sul registro dell’esotismo. Esaminare la geografia metropolitana dello spionaggio in epoca di turismo diffuso fornisce prospettive inedite sui fondali di un’epopea di congiure.

Se le spie girano il mondo in lungo ed in largo, a Londra risiedono in pianta stabile. Specialmente ora che il fondamentalismo nutre cellule dormienti in una metropoli popolata di pakistani e simili. Lo si è capito con gli attentati nella metropolitana del 7 luglio 2005. La fine della Guerra Fredda non allenta la mole di lavoro per chi opera al servizio segreto di Sua Maestà.

           

A passeggio in Trafalgar Square potrebbe esserci un individuo basso, tarchiato e grigio. George Smiley, protagonista della saga spionistica di John le Carré, che più di ogni altro ha contribuito a fare di Londra il luogo deputato degli intrighi occulti. Lo si intuisce fin dal suo primo romanzo, Chiamata per il morto, portato sullo schermo da Sidney Lumet nel 1967, con James Mason nella parte del ligio funzionario che lavora per l’intelligence. La Londra di le Carré appare nelle sue pieghe abituali per lo spy-thriller genuino, che rifugge gli effetti speciali alla James Bond. Hyde Park diviene il percorso di passeggiate che non servono a godersi il panorama, bensì a scambiarsi opinioni sulla guerra di spie, lontano dal rischio delle intercettazioni ambientali. Tutto per preparare la trappola ad un traditore che finirà nel Tamigi, le cui banchine sono espropriate alla scenografia dei gialli d’azione, fuori luogo su questo lato dell’Atlantico, dove servono invece da discariche di doppiogiochisti.

Prima di le Carré, era stato Joseph Conrad ad intuire le possibilità di plot dietro la facciata di una città così apparentemente proverbiale e pittoresca. Ne derivò L’agente segreto, che anticipa la partita a scacchi fra le grandi potenze, dove ogni mossa può risolversi in un omicidio o in un atto terroristico. Il protagonista, Verloc, sotto la copertura di una libreria, prepara una strage per scuotere gli inglesi dal beato torpore vittoriano. Non lo si dichiara, ma è un agente della Russia zarista, infestata di bombaroli che lo stesso Conrad raffigura in Sotto gli occhi dell’Occidente. Verloc si stupisce della sicurezza nella quale vivono i cittadini di Sua Maestà, invidiandoli con un odio bilioso.

La medesima pacatezza fa da sfondo alle scene londinesi degli anni ’60, all’apice della Guerra Fredda, quando è finito l’incubo del Blitz, il bombardamento tedesco a tappeto del secondo conflitto mondiale. Eppure, dietro le quinte si muovono individui ancora più carichi di reciproca ostilità che se appartenessero ad eserciti schierati in trincee contrapposte. Se ne accorge un altro anti-007, l’agente senza nome di Len Deighton, che nei film interpretati da Michael Caine viene chiamato Harry Palmer. Ogni mattina va in un ufficio del Ministero della Guerra, a Whitehall, che ufficialmente non esiste. È il sotto-servizio segreto per il quale vigila sulla pace del mondo libero. La Londra di Len Deighton è quella piccolo-borghese delle case a schiera, lontano da Belgravia, dov’era l’appartamento di Ian Fleming, l’inventore di James Bond. Può diventare pericolosa quando dietro il cortile che circonda una villetta periferica si nasconde la camera di tortura per il lavaggio del cervello, come accade in Ipcress.

          

Ecco, quindi, le sedi autentiche dei servizi segreti. Quella del MI6, lo spionaggio estero, si trova a Vauxhall Bridge, detta Babilonia sul Tamigi o Legoland per la forma di piramide ziggurat e di parallelepipedi ad incastro. L’MI5, che si occupa della sicurezza interna, è invece Thames House, a Millbank, sulla riva opposta del Tamigi. Dei turisti, attratti da un pezzo d’arte moderna nell’ingresso, pretendevano di visitare l’edificio, avendolo scambiato per la Tate Gallery. Meglio per loro sarebbe stato ripiegare su un’istituzione non certo chiusa al pubblico, ma altrettanto legata all’immaginario della spy-story. È l’Albert Hall, l’auditorium nel quale si consuma la sequenza conclusiva del film L’uomo che sapeva troppo, di Alfred Hitchcock (1956).

Mentre sale un crescendo di timpani, da dietro una tenda spunta una pistola che deve sparare ad un diplomatico straniero. Solo Doris Day può salvarlo, mettendo però in pericolo la vita del figlioletto, rapito e prigioniero nell’ambasciata di un Paese nemico.

Né ci si lasci illudere dalla ripetitiva normalità delle moltitudini di pendolari che transitano nella metropolitana. L’ha imparato il protagonista de Il maschio solitario, di Geoffrey Household, braccato dai tedeschi per avere osato simulare un attentato a Hitler, esercitando la passione per la caccia su un bersaglio umano. Nella prima pellicola che ne fu tratta, Duello mortale, di Fritz Lang (1941), Walter Pidgeon rende bene il londinese che di colpo ritrova la propria città divenuta terreno di battuta, dove la selvaggina è lui stesso. Più efficace del viso nevrotico di Peter O’Toole, che nel rifacimento televisivo del 1976, diretto da Clive Donner, si dimostra preparato in partenza all’ordalia della sua sopravvivenza.

         

Walter Pidgeon in "Duello mortale"
Walter Pidgeon in "Duello mortale"
Molto prima della guerra asimmetrica al terrorismo che dilania l’inizio del XXI secolo, negli anni ’80 Londra fu teatro dell’assalto all’ambasciata iraniana, evocata nel libro e nel film Chi osa vince. Iniziava l’era dei corpi speciali, come il 22º Reggimento del SAS, Special Air Service, che realizzò l’impresa. Londra, perciò, si conferma capitale di intrighi anche nel mondo disgregato, dove l’avversario non si trova più dall’altro lato della Cortina di Ferro, ma sotto casa.