Nel nostro incontro settimanale con i traduttori e il loro “misterioso” mondo, abbiamo incontrato Francesca Cosi e Alessandra Repossi, due autrici-traduttrici che lavorano in coppia.

In coppia hanno curato autori come Michael Largo (Stecchiti & censiti), Luis Martínez García (Il cammino di Santiago), Gary Seigel (Come non farsi male da soli) e molti altri.

Da pochi giorni in libreria un’opera unica che ha visto un loro grande impegno: i Diari di viaggio in Italia, Grecia e Truchia di Virginia Woolf (Mattioli 1885).

                            

Quand’è che avete deciso di diventare traduttrici? E, se non l'avete deciso, come vi ci siete trovati in mezzo?

La decisione è nata dal nostro amore per la lettura e per le lingue, la letteratura e la cultura di altri paesi. Abbiamo sempre letto moltissimo fin da bambine, in italiano e nelle lingue che via via imparavamo (entrambe consociamo inglese, francese, spagnolo e di recente abbiamo imparato un po’ di portoghese), fino ad assorbirne le sfumature.

Da ventenni abbiamo viaggiato molto all’estero, fermandoci diversi mesi sul posto (Stati Uniti e India per Alessandra; Francia, Inghilterra e più tardi Spagna per Francesca). I legami con la lingua e la cultura dei vari paesi si sono rafforzati e abbiamo anche potuto scoprire tanti libri che in Italia non arrivavano e che scovavamo durante lunghi giri nelle librerie del posto.

Nel frattempo ci siamo iscritte all’Università e Alessandra ha iniziato a tradurre testi tecnici per alcune aziende; poi ha lavorato per uno studio editoriale ed è entrata in contatto con una casa editrice che cercava traduttori e così ha iniziato a tradurre saggistica e linguistica. Mentre Alessandra faceva questo percorso a Milano, a Firenze Francesca iniziava a tradurre articoli accademici per conto dell’Università. Anni più tardi ha conosciuto Alessandra, che l’ha presentata alla casa editrice con cui collaborava più stabilmente. Da lì il percorso è comune e sei anni fa Alessandra e Francesca hanno fondato il loro studio editoriale. Il giro di editori si è allargato e con il tempo dalla saggistica le nostre eroine sono approdate alla narrativa.

Secondo voi è più faticoso tradurre un romanzo o scriverlo?

Sicuramente scriverlo: quando si traduce, si ha davanti un testo di partenza che, per quanto difficile, contiene già tutti gli elementi (intreccio, personaggi, stile). Quando si scrive si ha davanti la pagina bianca, è tutto da inventare!

Se avete tradotto da più lingue, quale secondo voi è più “confortevole” nel passaggio all'italiano?

Mmh, ogni lingua ha le proprie difficoltà: nel caso dell’inglese, il grosso problema è la sintassi, molto diversa dalla nostra, che spesso obbliga a smontare le frasi e rimontarle in modo completamente diverso in italiano. Inoltre, tanti modi di dire non hanno un corrispettivo italiano, ci si deve allontanare molto di più dalla “lettera” del testo.

Spagnolo e francese, invece, sono lingue romanze e quindi hanno molti più elementi in comune con l’italiano, primo fra tutti la sintassi. La traduzione è più rapida, però comporta il rischio di produrre un brano che è un calco dell’originale: lì per lì suona bene proprio perché le lingue sono simili, ma non suona come scriverebbe un italiano!

Vi è capitato di tradurre un autore che proprio non sopportate?

Per il momento, no. Sarà che questo lavoro ci piace moltissimo…

Il testo che più vi ha fatto ammattire a tradurre? E quello che invece più vi ha divertito?

Di recente abbiamo tradotto alcuni diari di viaggio inediti di Virginia Woolf: è stato un lavoro da mal di testa costante per l’estrema difficoltà dello stile e per la grande responsabilità che avevamo come prime traduttrici italiane di quest’opera. Un bellissimo testo, ma molto, molto difficile. Inoltre, si trattava di appunti presi durante il viaggio, quindi a volte erano un po’ frammentari e non sempre i nessi logici dell’autrice erano espliciti...

Ci siamo divertite molto a tradurre alcuni limerick (brevi poesie buffe) di Edward Lear, piccoli nonsense che creano quadretti pungenti e immaginifici, davvero spassosi. Queste poesie hanno una struttura ritmica ben precisa che abbiamo cercato di rendere in italiano facendo molti esperimenti e avvicinandoci via via alla nostra versione migliore.

Vi è mai capitato di aver voglia di “aggiustare” qualche passaggio mal scritto? Secondo voi un bravo traduttore aggiusta o lascia così com'è?

Edward Lear
Edward Lear
Bisogna riuscire a interpretare le intenzioni dell’autore: a volte scrive con uno stile che può suonare contorto ma che lo è volutamente. In questi casi bisogna cercare di rendere al meglio in italiano il suo stile, rispettandone le “contorsioni”. Altre volte l’autore fa uno scivolone, si lascia sfuggire un brano mal riuscito anche se non avrebbe voluto, e allora si cerca di sostenerlo... Ma è sempre un lavoro di interpretazione.

La traduzione cine-televisiva ha dei limiti (tempistica, ritmo, labiale degli attori, ecc.): c'è un corrispettivo di questi limiti in quella cartacea (come per esempio il numero di pagine del libro finito)? E se sì, quanto possono influire questi limiti sul lavoro di traduzione?

In linea di massima il corrispettivo di questi limiti non c’è: si traduce il testo così com’è, senza tagliarlo! Se poi l’editore vuole limitare il numero delle pagine, può scegliere un font più piccolo.

Forse può capitare, nel caso di uno stile particolarmente marcato (vedi la domanda sopra), che l’editore chieda di standardizzarlo un po’, di “normalizzarlo” per renderlo più scorrevole in italiano; a noi però non è mai successo.

Per finire, qual è il libro (o la serie di libri) di cui andate più fieri di aver curato la traduzione?

Sicuramente i diari di viaggio di Virginia Woolf, sia per la sfida che hanno costituito per noi sia per il fatto che l’autrice è sempre stata uno dei nostri miti personali!