SINOSSI: Poche coppie dello schermo hanno influito tanto profondamente sull'immaginario collettivo quanto quella formata da Peter Cushing e Christopher Lee. Nel corso delle rispettive, lunghe carriere, i due attori si sono cimentati nei piu' svariati tipi d'interpretazione, ma la consacrazione a. A partire dai primi e ormai leggendari film in coppia per la Hammer, The Curse of Frankenstein (1957) e Dracula (1958), e via via di pellicola in pellicola, Cushing che muore nel '94, e Lee ancora oggi attivissimo a quasi novant'anni hanno saputo intessere un rapporto professionale e personale di profonda amicizia. Caratterialmente dissimili ma complementari: dotato di straordinario calore umano Cushing, aristocraticamente burbero e affettuoso Lee. Diversi per vissuto e ambizioni, e tuttavia accomunati da una tenacia che affiora nei rispettivi personaggi. Capaci di esprimere una comune britannicita' anche nei frequenti ruoli stranieri o esotici. Entrambi eclettici e ricchi di doti artistiche (Cushing modellista, pittore, ornitologo; Lee cultore di storia, golfista, viaggiatore), questi Dioscuri della notte in transito incessante sullo schermo tra castelli e sepolcri rappresentano una testimonianza dello spessore professionale e personale che puo' star dietro a film etichettati come 'popolari'. Mai consumate in stereotipi, le maschere offerte da Cushing & Lee hanno spalancato all'Occidente del secondo Novecento una rinnovata galleria di mostri gotici. Con loro si e' affermato un sofisticato sistema simbolico di enorme impatto sul pubblico ancora nell'eta' di Twilight, come del resto testimonia un diffuso e appassionato culto che corre tuttora sul web, a riconoscere nella storia di questo tandem un'appassionante epopea umana e cinematografica, ma insieme un capitolo fondamentale delle mitologie dell'uomo moderno.

Parto subito dai dati tecnici. Siete un duo letterario consolidato da un precedente libro, sempre edito da Gargoyle, “The Dark screen. Il mito di Dracula sul grande e piccolo schermi” (2008) e già il precedente, come questo lavoro, si basa su consistenti fonti di diverso genere: come procedete metodologicamente? Vi incontrate fisicamente, lavorate per vie virtuali, come progettate e, soprattutto, come vi dividete o vi completate il lavoro?

Angelica: Non lavoriamo sempre nello stesso modo. E questo credo dipenda, prima di

tutto, dalla natura dello studio che andiamo a fare. The Dark Screen ha comportato una mole di ricerca mostruosa - è proprio il caso di dire... -. Evidentemente I Dioscuri della notte ha consentito di limitarci a un ambito più ristretto. Quindi, nel primo caso, ci siamo divisi le sezioni del libro, mentre nel secondo abbiamo proceduto attraverso una scrittura stratificata. Franco vive e lavora a Torino, mentre io sono di base a Milano e periodicamente a Roma: internet, mail e così via diventano strumenti fondamentali per il nostro lavoro in tandem. Fermo restando che ci siamo incontrati periodicamente per fare il punto.

Peter Cushing e Christopher Lee si sono incontrati nei tardi anni ‘50 sui set della Hammer, la casa cinematografica inglese il cui nome è legato al genere Horror, sdoganato al grande pubblico: voi come vi siete incontrati in questo progetto? Ovvero: com’è nato?

Angelica:

Molto semplicemente. Ci siamo trovati bene a lavorare insieme su The Dark Screen che è stato ben accolto. Quindi, stavamo pensando ad altri progetti, quando Gargoyle - nella persona del suo ex direttore editoriale e nostro amico Paolo De Crescenzo - ci ha proposto il tema delle figure archetipiche dell'horror attraverso le interpretazioni di Cushing e Lee.

Come la coppia Peter Cushing e Christopher Lee ha lasciato il segno nel cinema horror, cosa ha apportato?

Franco: Una prima risposta può essere in chiave storica: con le loro numerose e notissime interpretazioni assurte a classici, e con il loro incredibile carisma, Cushing e Lee hanno traghettato l’horror a una ridefinizione moderna e postmoderna. In sostanza, con loro inizia quell’horror a colori che stacca nettamente dai sabba d’ombre postespressionisti Universal, già annunciando le tinte di sangue e sesso che noi associamo al genere. Certo, sono cambiate tante cose dall’allusività vittoriana dei film di Fisher con il Tandem; ma nelle pellicole di questi due grandi professionisti troviamo un linguaggio che riconosciamo ancora come nostro. Anzi sono loro, con il collega Vincent Price, ad aver rappresentato l’ultima grande generazione di quella galleria d’interpreti di repertorio votata a soggetti macabri e fantastici che si rinnovava dall’inizio del cinema, e ha costituito una sorta di spina dorsale dell’horror cinematografico “classico”, prima cioè della ridefinizione odierna a effetti speciali (senza togliere nulla a eccellenti interpreti attuali, che non hanno però la loro specializzazione simbolica e i loro incredibili percorsi professionali). Ma anche al di là dell’horror, se pensiamo all’arruolamento dei due nella saga di Star Wars comprendiamo quale rapporto di icone del Fantastico abbiano incarnato per gli spettatori delle ultime generazioni, compresi i nostri giorni. Tanto più che Lee è a tutt’oggi attivissimo.

C’è però un livello ulteriore, più specifico. Cushing e Lee hanno fornito con ineguagliata efficacia al nostro vocabolario simbolico alcune icone fondamentali: e il risultato è una dialettica polare attorno alla quale ruota un intero sistema mitico. Cushing freddo, Lee rovente; Cushing espressione di demoni culturali, uomo di scienza fanatico o spietato puritano, e Lee portatore dell’Occulto, della furia sciamanica e del morso erotico; Cushing “vicino” all’umanità anche in ambiguità e ipocrisie, Lee circonfuso di aristocratica distanza. “Mostri”, in qualche modo, ma di una mostruosità completamente diversa e più inquietante di quella dei poetici Baracconi delle Meraviglie Universal: perché nella dinamica rituale dei Misteri da loro portati in scena (uso volutamente questo termine utilizzato per riti dell’antichità e sacre rappresentazioni medievali) emergono provocazioni ancor oggi sferzanti. Dove a inquietare non è in sé il morto-che-torna, ma il suo potere eversivo sui rapporti sessuali, familiari, sociali; non è la violazione dei sepolcri per innominabili esperimenti, ma il rapporto tra il titanismo del mad doctor e una società ambigua e mediocre ipocritamente paludata di buoni principi. Certo, a rendere possibile tutto ciò sono stati ottimi registi e sceneggiatori, come Fisher e Sangster – il cui ruolo non può essere sottovalutato – e case di produzione coraggiose, prima fra tutte la Hammer: ma la statura professionale dei due interpreti è tale da permetter loro di sollevare anche film di minore interesse per contenuti e regia.

E ancora, Cushing e Lee hanno saputo regalare una sorta di esegesi in carne e ossa – sia pure con spazi ampi di libertà creativa – a un gotico letterario cui le precedenti fabbriche dei mostri avevano guardato più distrattamente. Quest’attenzione al dato filologico, letterario e storico, rientra certo in qualche misura in uno stile inglese di cura della tradizione e recupero dei propri miti, ma è indubbio che Cushing e Lee vi abbiano offerto particolare risalto. Emblematico l’atteggiamento del primo che per il Frankenstein va a studiarsi il modo di lavorare dei chirurghi ottocenteschi, o quello del secondo che costantemente difende (come testimonia lui stesso) le ragioni degli autori dei romanzi contro le libertà di sceneggiatura delle trasposizioni. Qualche critico ha parlato di letteratura incarnata: e se non è una caratteristica esclusiva di Cushing e Lee, è pur vero che il loro numero di prove su classici del Fantastico è tale da poterli considerare come veri campioni di questa “traduzione” di linguaggi.

Ma ancora una considerazione mi sembra necessario aggiungere: non è facile trovare, anche in un mondo di artisti, personaggi dello spessore di questi due mattatori. Non solo per l’eclettismo: Cushing pittore, modellista, ornitologo; Lee dotato di curiosità davvero a trecentosessanta gradi, studioso di storia, appassionato di letteratura, campione di golf… e l’elenco potrebbe continuare. Ma anche – e sarei tentato di dire soprattutto – per lo spessore umano che ha connotato le loro vite, esperienze e rapporti di partnership. Intendiamoci, non volevamo farne santini, e abbiamo cercato di presentare la complessità dei due profili, le fragilità e i punti di forza di due caratteri tanto diversi; ma credo che questa profonda dimensione affettiva, amicale, di condivisione artistica rientri a tutti gli effetti nell’eccezionalità dei due.

Esiste un’esigenza di horror rapportata al contesto sociale? Ovvero: cambia, a seconda delle epoche, la fruizione di questo genere da parte del pubblico?

Franco: Direi senz’altro di sì. Sia in riferimento all’epoca che agli ambienti di recezione, con variazioni legate a un’evoluzione/trasformazione di modelli o invece alla loro contrapposizione – e mi spiego. Per esempio con l’epopea Hammer si articola e si definisce nei termini più compiuti qualcosa che il precedente cinema dell’orrore suggeriva solo a tratti e in singoli autori, cioè appunto la dimensione liturgica, la celebrazione del film gotico come mistero profano – e il pubblico partecipa delle azioni di Van Helsing e dei godimenti di Dracula attraverso un complesso gioco di proiezioni ed esorcismi legato a ben precisi modelli culturali. Ma lo spettatore resta al di qua dello specchio oscuro: l’esperienza non altera cioè la percezione tradizionale di “buoni” e “cattivi”, e si consuma in una partecipazione indiretta. Con l’età neogotica che parte negli anni Novanta, invece, il meccanismo cambia: il pubblico – almeno un certo pubblico – prende a varcare lo spazio simbolico. Il vampiro risulta figura (più o meno) positiva e si svela appartenere allo stesso orizzonte morale dello spettatore che può identificarvisi, ritrovare in lui le proprie perplessità ed emozioni, e magari vestire come lui. Certo in questo gioca anche l’idea di un più agevole accesso oltre lo schermo tramite la frequentazione di internet. Qui i modelli di fruizione vedono un’evoluzione nel tempo.

Ma i modelli possono anche contrapporsi. Per esempio l’horror può essere brandito con l’idea di cavalcare l’esistente e le sue pulsioni, di veicolare certi messaggi o semplicemente di lucrare sul bisogno di effetti forti. La Hammer è stata in questo estremamente pragmatica, basti pensare al tema della libertà sessuale cavalcato dalla cosiddetta trilogia Karnstein – dove Cushing fu presente in due film – ovviamente per attrarre il pubblico con un po’ di exploitation e non certo per simpatie ideologiche (anche se nel caso specifico possono aver giocato, al di là di ogni controllo della produzione, spunti “schierati” dell’antipsichiatria inglese). Eppure l’horror resta in radice un linguaggio meno governabile di quanto appaia superficialmente, di quanto in prima battuta si creda di sfornare. Un linguaggio anzi, proprio per la sua natura “estrema”, sottilmente eversivo, fin da quei castelli gotici di Madame Radcliffe che echeggiavano la caduta Bastiglia, con una robusta dose di fiducia nella Ragione e una parola, terrore, chiaramente rivoluzionaria. E se è ancora possibile sentir tranciare sull’horror giudizi banalizzanti o francamente idioti, ormai la critica – non solo degli istituti universitari, ma quella “popolare” e diffusa sul web – ha messo in luce questa dimensione importante di linguaggio-laboratorio. Che si confronta certo anche con prodotti scadenti o reazionari, ma come qualunque altro genere. Il panorama resta variegato; e citando anzi la trilogia Karnstein (e in generale un po’ tutto quello scorcio d’inizio anni Settanta definito da qualcuno “l’età d’oro delle vampire lesbiche”), il caso più paradigmatico di letture contrapposte riguarda proprio la figura della vampira. Evocata in chiave di voyeurismo sessista (fino al porno) da spregiudicati produttori e registi, da un’ottica completamente diversa è accolta come eminente icona libertaria – dai movimenti femministi e omosessuali americani (per citare un fronte che ha prodotto molta critica) fino al nostro Carmillaonline…

Diceva Arthur Machen che l’orrore può aggiungere bellezza alla vita, e il terrore è la preghiera alla bellezza sconosciuta. Più banalmente possiamo notare che il linguaggio dell’horror, in quanto espressivo dell’estremo e dello spiazzamento è una cassa di risonanza delle crisi di una società. Non semplicemente, come spesso banalizzato, un precipitato della crisi – quasi si trattasse di un’arte degenerata, voce della parte “insana” della società; e non semplicemente un linguaggio di tempi di crisi, anche se è vero che alcuni momenti storici risultano più “fertili” per la produzione dell’horror. In precedenza citavi The Dark Screen, e in effetti la storia del cinema su Dracula è un’eccellente cartina al tornasole, uno schermo oscuro (appunto) in cui si rifrangono via via, attraverso le singole trasposizioni, crisi, timori e desideri più o meno inconfessabili delle singole società: la Germania postbellica e prenazista di Nosferatu, quella della Grande Crisi USA di Lugosi, gli sviluppi del secondo dopoguerra con Lee... Crisi, poi, da intendersi non solo in senso negativo: proprio l’horror portato in scena dai nostri due Dioscuri richiama una delle stagioni più entusiasmanti del Novecento, i giorni euforici della Swinging London: paradossalmente c’è qualcosa che accomuna i mantelli di Dracula e le minigonne, le colonne sonore Hammer e i Beatles. E non tanto una diretta comunanza ideale, ma l’ambivalenza verso un modello vittoriano oggetto di appassionata e nostalgica dichiarazione d’amore (tali in fondo i film Hammer) e insieme di crisi e abbandono verso nuovi modelli.

Cassa di risonanza delle crisi, dunque: e persino al di là di quanto gli interessati (scrittori e attori, produttori e registi) possano cogliere: fino a svelare nervi scoperti, dubbi radicali, provocazioni al vetriolo sull’uomo moderno e il suo contesto sociale e politico. Assistere oggi a The Gorgon di Fisher coi nostri Dioscuri e soffermarsi sui sottotesti simbolici – amnesie e omertà collettive, ronde di bravi cittadini, proclamazioni roboanti e ipocrite sul “nostro stato […] molto democratico” – può portare ancora interessanti sorprese.

Come si è evoluta (o involuta) oggi la fruizione dell’horror, rispetto al cinema del periodo trattato?

Angelica:

È venuta a mancare la capacità di comprendere che sia la letteratura che il cinema di genere possono avere un valore artistico, culturale e sociale al di là di quello - peraltro rispettabilissimo - dell'intrattenimento puro. Questo ha determinato un circolo vizioso di decadimento sia della domanda che dell'offerta. Gargoyle ha provato e continua a provare a proporre classici e novità, prendendosi la respopnsabilità di fare una grande selezione. Con risposte altalenanti sul piano commerciale.

Cosa ne pensate dell’etichetta data ai generi, che li suddivide in piani alti e sottocategorie più popolari?

Angelica:

In Italia abbiamo la tendenza a reagire con lentezza al mondo che cambia. Questa distinzione che tu giustamente rilevi risale a inizio Novecento e ai dettami dell'idealismo di Croce, per farla breve. Il tutto superato già negli anni Trenta dalle idee di Benjamin, ad esempio. Gargoyle è nata proprio con la convinzione che la separazione fra una letteratura di genere, considerata cultura di basso livello, e una letteratura "alta" appartenente a una fascia culturale elevata non ha alcuna ragione di esistere. Semmai, incontriamo buona e cattiva letteratura; oltre - naturalmente - a ciò che interessa e piace e a ciò che non dà stimoli e non diverte. Pertanto Gragoyle prosegue la sua attività non soltanto con l'horror, ma aggiunge ulteriore letteratura di genere al proprio catalogo: la nuova collana Extra si occupa di fantascienza, fantastico e noir a partire dal prossimo dicembre e poi con un'uscita al mese per tutto il 2012.

Franco: Il tema dei generi è affascinante, perché tratta di etichette in continua mutazione, fortemente condizionate da fattori di mercato ma anche da miti d’epoca, e dalla fortuna di singole opere e autori. Ma le distizioni tra generi, o tra generi e mainstream (parola orrenda) sono elastiche: credo siano utili, però è ridicolo farne feticci. Del resto popolari non significa “di bassa qualità”: gli aedi che cantavano i fatti di Tebe o di Troia erano popolarissimi, anche se Iliade e Odissea sono state poi considerate opere capitali della cultura alta. Quel che conta è il concreto delle singole opere: è lì che si vede se un libro, un film o qualunque altra opera “parla”, o se resta rigida nel suo schemino, imbalsamata nella dimensione merceologica di prodotto. Il che non esclude che anche da queste opere minori si possano trarre elementi d’interesse.

Cosa direbbero i Dioscuri, se leggessero il libro?

Franco (ride): Cushing, col solito buon cuore e la sua leggendaria gentilezza, direbbe un sacco di cose carine. Lee forse brontolerebbe per qualcosa, ma ho la sensazione che sarebbe contento.

Angelica:

E nessuno dei due ci farebbe mancare una buona dose di humor britannico!

E voi, cosa direste loro?

Franco: Che li considero in qualche modo persone di famiglia. Li ringrazierei per tutto ciò che hanno regalato ai miei sogni – e mi fermerei a sentirli raccontare.

Angelica: Mi piacerebbe moltissimo sentirli raccontare, soprattutto quello che non siamo riusciti a scoprire.

A cosa state lavorando, ora?

Angelica: Sto lavorando su Gargoyle, per Gargoyle e con Gargoyle (credo di aver reso l'idea...) alla direzione editoriale e, in particolar modo, alla collana Extra cui accennavo. Non abbiamo deciso di non fare più niente insieme: semplicemente non è il momento per nessuno dei due.

Franco: Ho un vecchio lavoro avviato da anni su cacciatori di mostri & detective dell’occulto nella letteratura di genere, e qualche altra ricerca in pista – ma tutto procede con molta calma, al momento non riuscirei a impormi i tempi serrati degli ultimi due volumi. Più una quantità di altri progetti abbozzati, tenuti in caldo o appena iniziati. Compreso qualcosa di fiction, anche se credo che me lo trascinerò verso la pensione…

Ci salutate con una citazione dal libro?

Franco: Nel ringraziarti di cuore, proporrei questo.

“L’opera identificata come fondante della letteratura inglese, The Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer, inizia con la proposta di un oste a un gruppo di pellegrini diretti al santuario di Thomas Becket, appunto a Canterbury, di intrattenersi con novelle durante il viaggio. La storia offerta nelle pagine che precedono segue la stessa via: un cammino verso Canterbury segnato dai racconti – tali i film, dei quali abbiamo cercato di echeggiare la dimensione narrativa – di questa straordinaria, britannicissima coppia di interpreti e dei loro compagni: attori, registi, sceneggiatori, tecnici… Un percorso che in un giorno d’agosto ’94 al Pilgrim’s Hospice, non troppo distante dai portali dell’immensa cattedrale, conosce il suo snodo con la morte di Cushing: punto d’arrivo, certo, ma anche idealmente di nuova partenza, perché da quel momento l’avventura del Tandem trova compiuta definizione storica. […] L’esistenza stessa, su YouTube, di qualcosa come i cartoni animati Pete and Chris. The Never Ending Stories, coi due attori caricaturati in buffe storielle, offre la misura di un impatto sull’immaginario che li vede assurgere a categorie dello spirito, e persino attraverso la fondamentale serietà del gioco e della risata. Permettendo di riconoscere in questa storia congiunta un capitolo importante dell’orizzonte che abbiamo dentro.”