Cuba rappresenta per il giallo un territorio particolare: agli inizi degli anni Settanta, infatti, constatato l’enorme successo del genere in altri paesi dell’area del socialismo reale, come per esempio URSS e Bulgaria, vengono riveduti e corretti i suoi classici canoni per adeguarli all’ortodossia marxista: ripudiato dunque il “giallo-enigma” come difensore dell'ordine borghese; criticato il “giallo d'azione” per la sua ambigua difesa, individuale e violenta, della giustizia; bollata la “spy story” come aperta difesa dell'imperialismo occidentale, non rimane che la “novela revolucionaria” a coniugare correttamente giustizia e legalità con la dovuta partecipazione delle masse popolari all'azione del detective.

Che si tratti di un’operazione squisitamente ideologica non v’è alcun dubbio.

Il Ministero dell'Interno cubano organizza annualmente, proprio negli Anni Settanta, un concorso per “giallisti” nell'anniversario della Rivoluzione, tradendo così l'ansia del regime castrista di pilotare un’operazione culturale di vasto impatto col pubblico.

Basta dare una rapida scorsa alle biografie degli autori cubani del periodo per notare come diversi di loro facciano parte della “nomenklatura” castrista: Luis Adrian Betancourt (1939) è ufficiale del Ministero dell'Interno; Armando Cristobal Perez (1938) è funzionario nella sezione cultura del dipartimento Scienza, Cultura e Centri insegnanti del Comitato Centrale del Partito; José Lamadrid Vega (1939) è anch'egli ufficiale del Ministero dell'Interno. E gli altri sono giornalisti, attori, insegnanti, tutti comunque intellettuali, per così dire, “organici” al sistema di potere.

Anche le costanti dei gialli cubani sono significative: il quadro di riferimento marxista; la lotta contro la delinquenza comune (classificata quasi sempre come retaggio del regime di Batista) e contro le forze controrivoluzionarie (ispirate e/o guidate dai servizi segreti occidentali, CIA in testa); l'alleanza tra le forze di polizia e il popolo.

Con Leonardo Padura Fuentes (1955), per nostra fortuna, ci troviamo in tutt’altri territori.

Intellettuale anche lui, vive a Cuba (e non ha intenzione di andarsene), ma ha tuttavia della sua patria e del regime che la governa un giudizio molto più articolato, complesso e critico.

Quando decide nei primi anni Novanta di aprire il cosiddetto Ciclo delle Quattro Stagioni, di cui Maschere è uno dei volumi, ha ben chiare le idee, espresse successivamente in numerose interviste in giro per il mondo, su quale sia il valore del noir all’interno della sua letteratura.

Innanzi tutto cita come suoi padri spirituali, in questo determinato settore (ché rivendica poi anche altre ascendenze letterarie “tout court”), Hammett, Chandler e Vázquez Montalbán: quella “novela negra”, cioè, che i suoi predecessori cubani sospettavano di individualismo borghese; addirittura in un’occasione l’autore si spinge a dire che il suo tenente Mario Conde è figlio di Pepe Carvalho e nipote di Philip Marlowe: più chiaro di così…

D’altra parte viene messo altrettanto in chiaro che il noir è per lui un mezzo assai flessibile per fare della critica sociale, per avvicinare masse di lettori a problemi complessi dei quali altrimenti non verrebbero mai a conoscenza: una posizione che molti narratori dalle due parti dell’Oceano e anche nel nostro Mediterraneo sottoscriverebbero immediatamente.

Il problema è, naturalmente, saper dosare la miscela in modo così sapiente da non declassare, da un lato, l’ambientazione socio-politica cubana a puro fondale esotico, ma da non dimenticare, dall’altro, le esigenze dell’intreccio trasformando così il noir in un saggio malamente travestito.

L’operazione, con Maschere, è riuscita a metà: l’inizio (l’assassinio di un travestito in un bosco all’Avana) si caratterizza subito come un caso assai complicato al quale vengono assegnati il tenente trentacinquenne Mario Conte (solo in questa traduzione il cognome del detective è stato italianizzato, ritornerà Conde nei successivi), richiamato da una sospensione dal servizio, e il suo diretto collaboratore sergente Manuel Palacios detto Manolo. Ben presto però l’intreccio sembra evaporare al soffocante e caraibico caldo d’agosto e le peregrinazioni del nostro eroe (triste, con un solo vero amico, disincantato, con un principio di depressione) sono per lo più il pretesto per imparare a conoscere ciò che si cela sotto la maschera vetero-marxista di uno degli ultimi regimi di socialismo reale sopravvissuti.

Maschere, appunto.

Ogni personaggio ha molteplici sfaccettature, celate in qualche modo all’occhiuta sorveglianza dell’apparato repressivo: importanti diplomatici che hanno resistito al passaggio da Batista a Castro; figli di buona famiglia che sin da piccoli rivelano tendenze omosessuali; artisti osannati dal partito che nascondono pulsioni “decadenti e borghesi”; moralisti dell’ultima ora pronti a denunciare chi fino all’altro ieri era loro amico; donne di servizio di colore altrettanto acculturate dei loro padroni; ufficiali di polizia indagati dalle Investigazioni interne ma in realtà integerrimi; altri ufficiali apparentemente integerrimi, ma in realtà corrotti.

Lo stesso Mario Conde, che si ritiene, in modo tradizionalmente cubano, ferocemente eterosessuale, in realtà è più il tempo che trascorre da solo che quello in compagnia di belle donne: senza contare che, nel corso dell’inchiesta condotta nell’ambiente dell’omosessualità e del travestitismo cubano, finisce per diventare amico del pericoloso (in tutti i sensi: in quanto omosessuale e artista reietto dal partito) drammaturgo Alberto Marchese. E, nel finale, dalle sue numerose maschere, riemerge anche quella dello scrittore abortito tanti anni prima a causa della censura del regime e che ora può convivere alla luce del sole accanto a quella del detective.

Solo dopo questa affascinante traversata nel mondo dell’opposizione (non dichiarata) al regime (omosessuali, cattolici, non comunisti, artisti di varia estrazione), riemerge infine, come un fiume carsico da troppo tempo scomparso, il motivo dell’inchiesta che si conclude in modo non troppo sorprendente (visti i presupposti) ma lasciando, per espressa volontà dell’autore a cui piacciono i finali parzialmente “aperti”, alcuni nodi irrisolti.

Alla fine della lettura si ha così la contraddittoria percezione di un senso di pienezza causato dalla profondità dell’indagine sociale e uno però di inadeguatezza  provocato da un intreccio che sarebbe stato meglio irrobustire e vivacizzare (e viene in mente a questo proposito un romanzo, di analogo impatto sul lettore, di Vázquez Montalbán, Il premio): dimostrando che, se ce ne fosse bisogno, il giallo non è un genere che tutti, indiscriminatamente e per qualsiasi motivo, possano impunemente manipolare.

Voto: 7