Ecco di nuovo tra noi Harry Hole, lo stropicciatissimo, semialcoolizzato commissario borderline creato dal cinquantenne scrittore norvegese Jo Nesbø; e continua la strategia di annessione del noir scandinavo da parte della più fortunata delle collane di narrativa dell’Einaudi: dopo aver infatti strappato alla Cairo con Tre secondi la coppia più hard-boiled del giallo svedese, Roslund & Hellström, e contemporaneamente alla prima italiana della danese Elsebeth Egholm (con Il danno), ecco il passaggio di Nesbø dalla Piemme (che peraltro fa parte dello stesso gruppo Mondadori).

Il leopardo, opera monstre di oltre 750 pagine, al netto degli entusiastici giudizi dei recensori di mezzo mondo, è invece abbastanza in linea con le tendenze scandinave del momento: una società nordica che mostra le rughe del suo decantato modello di tollerante convivenza; uomini che “odiano le donne” (per citare l’inevitabile Stieg Larsson), ma anche gli uomini e con una ferocia incredibile; corpi di polizia tutt’altro che specchiati e immuni da difetti (qui c’è una lotta senza esclusione di colpi tra l’Anticrimine di Oslo – a cui appartiene Hole – e l’unità centralizzata statale specializzata in Omicidi – la Kripos – per la supremazia nelle indagini); e l’immancabile, efferato serial killer, tipologia peraltro al centro anche del precedente romanzo di Nesbø, L’uomo di neve.

Il problema è infatti questo, soprattutto per il lettore italiano. Superato il benefico shock di conoscere tutta una fiorente narrativa fino a pochi anni fa ignota nel nostro paese; assimilato con altrettanto stupore il concetto che il Grande Nord non è affatto quell’oasi di civile convivenza, assenza di conflitti sociali, socialismo democratico, welfare dalla culla alla tomba del nostro immaginario, bensì il solito vecchio mondo stuprato dalla violenza, solo con una media stagionale di una decina di gradi e molte ore di luce in più o in meno rispetto a noi; fatta l’abitudine con vicende assai complesse che, per svilupparsi a pieno regime, hanno bisogno di centinaia e centinaia di pagine: ebbene, a ogni nuova lettura si ha l’impressione di un sempre più marcato manierismo, di una standardizzazione dell’immagine criminosa di questi paesi e, al tempo stesso, di una ricerca ossessiva di miscele narrative sempre più speziate per un pubblico sempre meno ingenuo.

Non a caso abbiamo infatti citato L’uomo di neve: appena uscito da un terribile corpo a corpo con un serial killer che ha portato alla rottura con Rakel e Oleg, l’unica donna che forse abbia mai amato e il figlio di lei che ama come se fosse suo, Harry Hole s’imbarca in un ancor più cruento duello con un assassino altrettanto efferato; localizzato dalla collega Kaja Solness a Hong Kong, dove è andato a leccarsi le ferite tra alcool, droga e corse di cavalli, torna in patria essenzialmente per assistere alla morte del padre Olav, la cui agonia fa da contrappunto a tutta la vicenda. Ma poi, ripreso dalla sua vocazione innata per la giustizia, si lascia invischiare dal suo capo Gunnar Hagen nell’indagine per la morte di tre donne, tra cui un deputato laburista al Parlamento. In realtà c’è una lotta di potere tra l’Anticrimine di Hagen e la Kripos dell’elegante, affascinante e ambizioso Mikael Bellman e Hole si trova in mezzo al fuoco incrociato dei due: se il primo non esita a servirsi dei suoi contatti con un influente giornalista iscritto alla sua loggia massonica per raccogliere un dossier sul rivale, il secondo usa senza scrupoli la sua influenza personale e professionale su alcuni membri della squadretta di Hole per anticiparlo nelle mosse.

Sullo sfondo un turbinare di personaggi e situazioni che infittiscono la nebbia che grava sulla vicenda: un raffinato e crudelissimo strumento di tortura belga-congolese, la “mela di Leopoldo” con cui alcune vittime vengono straziate; l’infinita guerra tra bande al confine tra Ruanda e Congo (anche) per il possesso del prezioso coltan, minerale indispensabile nella moderna industria dei componenti di cellulari e pc; una hacker, ex agente, Katrine Bratt, ricoverata in una clinica psichiatrica, e lo stesso “uomo di neve”, il serial killer malato di sclerodermia assicurato alla giustizia al termine del romanzo precedente, che, a diversi livelli, collaborano con Hole; l’affascinante Solness verso cui Hole ha un debole e che ne Il leopardo riveste un ruolo assai più complesso di quello che può apparire alle prime battute; e una vecchia storia di violenza familiare e di gelosia sessuale tra due aspiranti “maschi alfa” che non solo infetta la vita dei protagonisti, ma che allunga anche i suoi tentacoli fino ai nostri giorni.

Molta carne al fuoco dunque, ma spesso il filo della narrazione rischia di disperdersi tra i troppi indizi che Nesbø semina a bella posta nel corso della vicenda; e il movente dell’azione, come in certi romanzi di Agata Christie, risulta un po’ troppo banale rispetto all’ingegnosità con cui il colpevole (e l’autore dietro di lui) risolve il problema degli omicidi seriali. Neppure la doppia capriola, che contraddistingue la seconda metà del libro, e che naturalmente non sveliamo, riesce a giustificare del tutto la fatica spesa a orizzontarsi tra i meandri di una Oslo nera, di innevate (e insanguinate) montagne norvegesi e di una Hong Kong che pone il suo sigillo, circolarmente, all’inizio e alla fine l’intero romanzo.

Molto fumo e, paradossalmente, troppo arrosto, verrebbe da dire: e la sensazione che al prossimo appuntamento Nesbø potrebbe deragliare dai solidi binari del suo collaudato nøir (simpatica invenzione grafica della redazione Einaudi nello strillo di copertina), all’inseguimento folle del suo ancor più folle Harry Hole.

Voto: 6.5