Agnello mi chiamo. Non ho altri nomi.

O meglio adesso sono la parte invisibile di Agnello:anima, spirito, presenza, insomma uno di quei nomi che gli uomini usano per chiamare tutto quello che c’è ma che non sanno o non vogliono vedere.

Il corpo, quello che resta, fino a stamattina era chiuso in un frigorifero in mezzo a sedani, indivie, gorgonzola industriali, burro, birre, coca cola e un maialetto che fissava il mio cadavere con l’occhio spento e ancora sofferente.

Ora il mio corpo, quello che resta, giace su uno spesso tagliere di ginepro che con il suo profumo confonde l’odore di merda che le mie interiora, messe in una colorata ciotola di ceramica, rilasciano all’aria. Fra qualche ora quei budellini avvolgeranno il mio piccolo cuore, il fegato, diaframma e reni con pezzetti di pane raffermo e lardo: tutto dentro uno spiedo di ferro.

La trasformazione prima di quella ultima e definitiva credo davanti ad un fuoco vivo.

Solo il mio spirito, la mia piccola anima vergine, svolazza leggera in questa cucina di campagna e osserva questo viavai prenatalizio di donne e uomini.

È la vigilia e io ho avuto il privilegio di finire sulla tavola dei padroni.

Un agnello fortunato, un’anima di agnello che può muoversi in libertà e osservare senza essere visto nella casa del Pastore.

Il Pastore. Un energumeno che ogni mattina si attaccava alle tette di mamma e si portava via un bel pezzo delle mie colazioni.

Mamma, una bella pecora sana e forte, aveva cercato tante volte di nascondermi per salvarmi; lei lo sapeva che essendo nato a fine settembre difficile che me la scampavo.

Ma quel coglione di cane, più pastore del pastore, mi ritrovava sempre. Quanto mi stava sul culo quel cane! Due volte l’anno quando gli arrivava il calore si attaccava dietro a noi agnelli, lingua penzoloni, muovendosi come uno scemo, sudato, affannato. Che schifo di animale!

Meglio i gatti della Signora! Più figli di bagassa ma dei veri signori! Ci guardavano uscire in fila indiana dall’ovile, loro sdraiati lunghi al sole, occhi semichiusi osservavano la nostra processione con un misto di rispetto e pena. I gatti della Signora.

Che bella la Signora! Così giovane, così sarda, così silenziosa!

Una volta che stava piovendo eravamo rimasti nella Pinnetta e il padrone era sceso in paese. Quel giorno mi riesce di fuggire mentre sia mamma che il cane se la dormivano. Fu la prima e l’ultima volta, mamma si era arrabbiata da morire: “Non farlo più che è pericoloso, che ti possono rubare, che ci sono i cani randagi…” Fattostà che arrivai fino alla casa dei padroni e con un salto riuscii a salire su un tavolaccio messo sotto una delle finestre. Mi misi subito, con la curiosità di noi bambini, a guardare dai vetri. Era la camera da letto del padrone. La Signora era tutta nuda, bianca bianca come me, e stava giocando con quel giovanotto che ogni tanto viene ad aggiustare il trattore. Lui le stava facendo quello che quell’idiota di cane cercava di fare a noi agnelli. Ma loro non erano brutti da vedere, sembrava un ballo. E poi alla Signora piaceva e mi importava che la Signora fosse contenta. Quando l’avevo raccontato a mamma, dopo che le era passato lo spavento, era scoppiata a ridere che le scendevano le lacrime.

Eccola sta entrando ora in cucina. Sta togliendo dal frigo il porcetto e lo stende sul tavolo. Lo massaggia delicatamente con olio d’oliva e sale prima di infilarlo nella spiedo di ferro.

Allora forse mi cucina lei! Meno male avevo il terrore di finire nelle mani di una delle zie. Vorrei che fosse la Signora a trasformarmi in qualcosa che lei stessa mangerà. Sarà l’ultima e unica occasione per starle vicino.

Con una leppa lunga e affilata affetta fine fine una cipolla bianca e sbuccia due spicchi d’aglio.

Cosa vorrà fare?

Nella cucina a gas una pentola borbotta condense profumate. Entra lui: il padrone.

Sigaretta di punta, già ubriaco e sono ancora le cinque e mezzo della vigilia.

Si piazza su uno sgabello davanti al camino e al porcetto che inizia a prendere colore. Sulla punta di uno spiedo più corto mette del lardo che fa sgocciolare caldo sull’animale.

“Come lo stai facendo quell’agnello?”

“In bianco con il limone”

“Oh?! Avvicina quel boccione”

“Perché ti stai già cuocendo Giovà che poi arrivi sfatto all’ora di cena?”

“Già lo so io quello che devo fare”

Silenzio.

“Devo fare molte cose Marì stasera”

Silenzio.

“Devo ammazzarti Marì”