«La guerra Anglo-Zulu del 1879, combattuta fra le giubbe rosse britanniche e i feroci guerrieri Zulu sulle pianure costiere alle pendici dei monti Drakensberg nel Sud Africa, fu solo una delle molte “piccole guerre” della Regina Vittoria: campagne, spedizioni punitive e altre operazioni militari condotte durante gli ultimi decenni del XIX secolo. Questa piccola guerra coloniale, durata giusto sei mesi, incluse una delle più devastanti ed umilianti sconfitte mai subite dalla British Army (ad Isandlwana, 22 gennaio 1879), e nel giro di ore anche la più eroica e valorosa prova di coraggio britannica (a Rorke’s Drift, 22-23 gennaio 1879), per la quale vennero assegnate undici Victoria Cross».

Così nel 2011 Harold E. Raugh jr. introduce nel suo saggio Anglo-Zulu War, 1879 una storia che sembra nata per fornire ottimo materiale agli sceneggiatori: una grande, epica ed eroica storia d’assedio. All’Inghilterra la ricorda il giornalista e saggista John Prebble con una inchiesta di successo - Slaughter in the Sun, apparsa sulla rivista “Lilliput” nel 1958 - e subito viene coinvolto da Cy Endfield (prolifico regista americano da poco passato a lavorare nel Regno unito): scrivono a quattro mani la sceneggiatura di un film che diventa un cult movie appena uscito nei cinema.

           

Prodotto nel 1964 dalla neonata Diamond Films e distribuito dalla filiale britannica della Paramount (va ricordato che il film solo nel ’69 arriverà negli Stati Uniti), Zulu denota sin dal titolo un valore fin troppo dimenticato dal cinema: la semplicità. Una storia semplice, ben nota, uno sviluppo semplice (anzi, praticamente nessuno sviluppo), un titolo semplice. C’è l’Africa, ci sono pochi inglesi e una valanga di Zulu. Lo scontro è inevitabile e sanguinario. Punto.

Ancora oggi stupisce il successo di una pellicola davvero povera di “trovate hollywoodiane”, ma proprio l’asciutta esecuzione di un film senza fronzoli né doppi fini è la dimostrazione che una buona storia e bravi attori possono fare molto. Zulu non è la solita apologia della guerra a cui il cinema statunitense contemporaneo ci ha tristemente abituato: è la storia di un piccolo gruppo di soldati assediato da una valanga di guerrieri nemici. La più classica storia d’assedio senza fini moralistici né intenti didascalici.

Siamo nel Sud Africa del 1879 e in un piccolo avamposto alle pendici dei monti Drakensberg arrivano due tenenti: Chard (Stanley Baker) e Bromhead (Michael Caine). È noto che due galli in un pollaio creano problemi, e infatti i due iniziano sin da subito a battibeccare su chi debba comandare, non rendendosi conto che i guerrieri Zulu dei dintorni si stanno organizzando, guidati dal capo Ceteway, per scacciare l’invasore. E non stiamo parlando di qualche centinaio di ribelli primitivi, bensì di seimila abili guerrieri perfettamente organizzati da uno stratega militare.

Tutti i film di guerra hollywoodiani si basano sulla stessa regola: le scene d’azione devono essere ridotte ai minimi termini, per ovvi motivi di budget. Zulu stravolge questa regola e, rarissimo caso nella storia del cinema, riduce al minimo la parte “parlata” e si dedica quasi interamente alla battaglia di Rorke’s Drift, con i guerrieri autoctoni che si riversano a valanga sul piccolo avamposto britannico.

          

Girato nelle stesse location che videro la reale battaglia, il film nasce all’insegna dell’accuratezza storica (altro concetto a cui Hollywood ci ha disabituato!). «Fummo fortunati ad avere Buthelezi, il capo della nazione Zulu, nella parte del leader, ma ancor di più ad avere una principessa Zulu come consulente storica» racconta Michael Caine nella sua autobiografia The Elephant to Hollywood (2010). La principessa si assicurò che le proporzioni fra soldati britannici e Zulu fosse accurata, dando alla pellicola un impatto decisamente maggiore. «Credo ancora che le scene di battaglia siano le migliori mai viste su schermo. Di certo la prima volta che vidi quei duemila guerrieri Zulu arrivare dalle colline e inondare la valle dove stavamo girando, fu indimenticabile. [...] Cominciai ad immaginare cosa abbia significato per quel manipolo di soldati britannici mantenere la posizione a Rorke’s Drift, e capii come mai furono assegnate undici Victoria Cross in un unico giorno: un evento unico nella storia militare britannica.»

In realtà nel 1879 i guerrieri Zulu erano seimila, ma bastò qualche gioco di camera perché nella pellicola sia davvero impossibile non sentirsi sopraffatti dal numero spropositato dei nemici.

L’uscita del film in patria fa esplodere la Zulu-mania, e l’anno successivo l’autorevole Donald Morris pubblica il saggio accademico The Washing of the Spears. Il 1979, l’anno del centenario della battaglia, moltiplica tutto all’ennesima potenza, tanto che a Cy Endfield viene chiesto di fare il bis come sceneggiatore, ma non come regista: il film che deve celebrare il centenario viene affidato al londinese Douglas Hickox, padre del più celebre Anthony, ed è il suo ultimo prodotto cinematografico. (Nei successivi ultimi dieci anni di vita Hickox girerà solo prodotti televisivi.)

          

Dopo il primo Zulu Caine viene notato dal produttore Harry Saltzman che, offrendogli il ruolo protagonista di Ipcress (1965), gli regala una luminosa carriera ancora attiva. Non è quindi disponibile per il secondo film sull’argomento, sebbene si trovi già in Africa per le riprese del kolossal europeo Ashanti di Stephen Geller, ma sempre pronto a dover partire per la California dove sta contemporaneamente girando lo statunitense L’inferno sommerso di Irwin Allen. Non è un problema, perché per Zulu Dawn vengono messi in campo pezzi da novanta come Peter O’Toole, Burt Lancaster (che prende la parte che voleva Stanley Baker, tenuto fuori benché dopo il successo del primo film voleva tornare a partecipare) e Denholm Elliott. Doveva esserci anche John Hurt ma le autorità africane gli negarono il visto di entrata, confondendolo con quel John Heard che aveva fatto parlare di sé per le marce anti-apartheid.

Al di là di questi grandi nomi, tutti relegati in piccoli ruoli, uno stuolo di giovani ottimi attori mette in scena la tragica battaglia di Isandlwana, dopo la cui vittoria schiacciante gli Zulu - armati dei fucili sottratti ai cadaveri inglesi - si diressero a Rorke’s Drift dove furono meno fortunati. Quindi Zulu Dawn è il classico prequel che segue il successo di un film, ma visto che era stato studiato per sfruttare il centenario della battaglia di Isandlwana ebbe comunque successo. Mai però quanto il primo.

Zulu è la storia di alcuni soldati che, in fortissima inferiorità numerica e con mille problemi, mantengono alto l’onore della divisa e affrontano stoicamente il nemico. Zulu Dawn è la storia della cecità di un impero che si crede imbattibile e delle sue ridicole pratiche burocratiche che, unitesi a mille altri problemi, decretano la sconfitta di fronte ad un meglio organizzato esercito di guerrieri autoctoni. Il primo è un film epico perché mette l’accento sul coraggio di pochi; il secondo è semplicemente un film tragico perché mette l’accento sulla cieca stupidità di molti. Sono decisamente due bellezze diverse.

           

Festeggiare il centenario di una sconfitta ponendo fortemente l’accento sui tanti errori commessi - insinuando anzi che senza quegli errori l’esercito britannico avrebbe potuto avere ragione degli Zulu, come se le doti strategiche del capo Ceteway non abbiano avuto rilevanza - non è forse una buona trovata, e infatti di solito quando si parla di guerra agli Zulu è al primo film che si fa riferimento.

Inoltre dimostra che una buona storia d’assedio può travalicare ogni genere, come gli spettatori nello stesso periodo stanno per scoprire... come vedremo la settimana prossima.