Atmosfere misteriose da profondo Sud in questo film dell’americano Iain Softley qui a battesimo in una storia di paura che affonda le mani in un mare denso di tensione ai limiti dell’orrore, oscure presenze e una compiaciuta e vincente cinefilia.

The Skeleton Key del titolo è una sorta di passepartout capace di aprire tutte le stanze di una enorme e sinistra casa dove la giovane protagonista ha trovato lavoro come infermiera; perso da poco il padre infatti, con cui si intuisce aver avuto un difficile e non risolto confronto edipico, Caroline, interpretata dalla convincente “figlia d’arte” Kate Hudson, decide di dedicarsi all’assistenza di persone anziane e malate con una sorta di altruismo espiatorio che rischierà di presentarle un prezzo altissimo.

Rispondendo a un annuncio su un giornale finirà nella villa dei coniugi Devereaux dove un giovane e ambiguo avvocato amico di famiglia la convincerà con insistenza a occuparsi del padrone di casa, muto e paralizzato a causa di un misterioso incidente; Caroline si addentrerà così giorno dopo giorno nei meandri misteriosi della grande dimora semiabbandonata, scontrandosi con l’ostilità sempre più minacciosa dell’anziana moglie del suo assistito e scivolando piano piano verso l’incubo.

La scoperta di una stanza segreta che non si può aprire con lo skeleton key trasporterà Caroline in una diversa dimensione sospesa nel tempo, dove presente e passato si sovrappongono alla ricerca di malati equilibri omeostatici, dominata da oscuri rituali, superstizione e occultismo ma allo stesso tempo aperta a una possibilità di salvezza che il regista propone con originalità: “se non ci credi non ti succederà niente” si ripete infatti più volte nel film, ed è forse questo, la razionalità, il controllo e la gestione della paura, delle proprie emozioni e quindi, in sostanza, di sé che costituisce la chiave per una possibile soluzione, uno skeleton key salvifico che ci suggerisce, con garbato accenno, un nuovo punto di vista sulla paura.

Ambientato in una New Orleans tempio sovrano dell’occulto, decadente e sinistra come gli interni della maestosa casa coloniale o gli esterni del lussureggiante giardino che rimanda a quello di Improvvisamente l’estate scorsa (1959) nella sua inquietante e simbolica fissità, il film si sviluppa flemmatico, con misurati, e forse un po’ prevedibili sussulti, attento a rendere bene l’atmosfera e a preparare un assestato, e realmente ben riuscito, colpo di scena finale.

La conclusione chiude il cerchio, simbolico, del film, e spiega l’intera storia con un epilogo effettistico ma sempre sofisticatamente calibrato, (va riconosciuto al regista un gusto della paura elegante e mai sopra le righe) e con una massiccia citazione a un cinema passato, oggi sempre più rimpianto.

L’atmosfera del film, a parte il suggestivo sfondo del Sud, l’intreccio e soprattutto il finale ricordano infatti, forse un po’ troppo, l’ottimo Ballata macabra diretto da Dan Curtis nel 1976 e a tutt’oggi straordinariamente originale, mostrando così un “senso del cinema” che insieme alla scelta del cast costituisce uno dei punti di forza del film.

Accanto alla giovane Hudson, troviamo infatti un bravo John Hurt, lo stesso di Orwell 1984 e di The Elephant Man, encomiabile nella sua rappresentazione, completamente muta, di atterrita impotenza e una Gena Rowlands che nel ruolo della vecchia signora Devereaux vale da sola buona parte del film.

La Rowlands, a lungo interprete di un grande cinema raffinato e intellettuale, così come lo era la sua indimenticata bellezza, in seguito isolatasi dopo la morte del grande marito e regista John Cassavetes, e ultimamente ricomparsa in pellicole spesso al di sotto del suo valore, riappare in questo film quasi irriconoscibile, trasandata e sciatta per esigenze di copione, incredibilmente invecchiata per ragioni forse più realisticamente anagrafiche, ma sempre e comunque dotata di un fascino potente che ammicca misterioso e non privo di inquietudine per tutto il film, fino a esplodere violento verso il finale nella scena in cui si trascina minacciosa su per le scale e come un Humphrey Bogart trasfigurato ringhia feroce alla protagonista: “Ehi, bambina, mi sa tanto che mi hai spezzato le gambe!”.

Qui il film sembra fermarsi per un istante, inevitabilmente l’immagine della Rowlands si scompone e nella mente dello spettatore si sovrappone prepotente il ricordo di lei in Gloria, una notte d’estate del 1980: impermeabile stretto in vita, tacchi alti, pistola in pugno e sigaretta all’angolo della bocca, meravigliosa dark lady, Cinema, purissimo e cristallino.

Riccardo Strada

Un’infermiera (Kate Hudson) con una certa disposizione verso l’ignoto e l’oscuro -  uno dei pazienti che cura muore e lei si fa carico degli effetti personali che nessuno reclama per puro oblio – accetta un lavoro di assistenza a domicilio in una strana casa nello stato della Lousiana. Lui (John Hurt, ineccepibile) praticamente paralizzato, necessita di attenzioni continue e la moglie (Gena Rowlands, gradita presenza) lo affida alle sue attenzioni professionali ma la avverte: l’abitazione coloniale è enorme, vetusta, enfia di stanze e pertugi ai quali è possibile accedere solo con la chiave universale, da cui il titolo, e sarebbe cosa giusta attenersi alle sole zone padronali.

Inquietanti e ritmici rumori in soffitta, la mancanza totale di specchi all’interno della costruzione sono i primi elementi di anormalità che solleticano la perversa curiosità della ragazza e una flebile ma accorata richiesta d’aiuto da parte dell’infermo, la chiave di volta per superare il tabù delle raccomandazioni e del sacro timore. Armata del passepartout parte all’esplorazione e approda nell’unica stanza impossibile da aprire.

Il vaso di pandora è schiuso e vecchie vicende legate alla pratica di riti vodoo, credenze popolari e liturgie sacrificali sono l’humus nel quale crescono i sospetti reciproci supportati da una continua altalena di rimbalzi: ti credo non ti credo, ci credo non ci credo per arrivare al “non è vero ma ci credo” e assumersi le responsabilità del caso.

Cantilene maledette registrate su vinile, bamboline malefiche spillate di noia e tempi morti sono il salvacondotto per approdare al finale che ribalta la prospettiva e spiega i lati oscuri di questa storia di fantasmi in salsa blues dove lo spirito di Samara è pressochè replicato – meglio dire riflesso - sotto altre spoglie (lo sceneggiatore Ehren Kruger è il medesimo che riadattò The Ring per il pubblico occidentale).

Brutte cose accadono e gli abitanti della casa si trasformano nelle pedine di un disegno che si reitera senza possibilità alcuna di ribellione perché questa volta la storia è a uso e consumo degli spettri. Ma allora dov’è la novità?

Daniela Losini

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