Sarebbe un errore ricordare Terence Young solo come il regista dei primi fortunatissimi Bond, tra i suoi lavori oltre che innumerevoli thriller, storici, western e avventurosi registriamo anche altri film di spionaggio di stampo decisamente differente dalla formula che portò il successo all’eroe di Ian Fleming. Tra tutti questi Triplo gioco (Jigsaw Man del 1983) mette in campo Michael Caine ma anche diversi altri grandi nomi del cinema di quelle stagioni.

Tratto dal romanzo Spia a rendere (The Jigsaw Man, 1973: Segretissimo Mondadori n. 727) della moglie di Young, Dorothea Bennett, Triplo gioco  si colloca più decisamente nel filone “intellettuale” della spy story benché non manchino azione e ritmo.

            

Salvo un brevissimo prologo moscovita, l’azione si svolge tutta a Londra e allude in maniera piuttosto chiara alla vicenda che ha condizionato la storia dello spionaggio inglese per tutta la durata della Guerra fredda. Il tradimento di Burgress, Mclean, Blunt e Philby (quest’ultimo arrivato quasi a essere capo dell’MI6) reclutati sin dagli anni Venti dallo spionaggio russo e convinti a fare il doppio gioco con una miscela a volte difficilmente scindibile di idealismo, guadagno personale e ricatti sessuali, minò del tutto i rapporti tra l’intelligence inglese e quella americana, lasciando sempre il sospetto che esistesse un “quinto uomo” inserito nello spionaggio di Sua Maestà. I romanzi di John le Carré ne costituiscono una cronaca romanzesca ma verosimile.

Curiosamente in questa pellicola Philby è nominato più volte ma sir Kimberly sembra essere la sua esatta trasposizione. Ex capo dell’MI6, transfuga in Russia dove viene insignito dei più alti gradi del KGB (Unico straniero ad avere tale onore), Kimberly, passata la sessantina, è diventato un vecchio ubriacone, causa d’imbarazzo anche per i suoi ex amici sovietici. C’è, poi, sul capo di tutti la minaccia di un dossier con l’elenco di tutte le spie russe in  Inghilterra dagli anni ’20 in avanti che Kimberly avrebbe sottratto prima di fuggire.

A questo punto gli viene offerta un’occasione. Tornare dopo aver subìto una plastica facciale e un serio allenamento che lo rimetta in sesto, a Londra sotto le mentite spoglie dell’addetto culturale Kutzminsky. Qui, dalle bende applicate in seguito a una plastica facciale che agli inguaribili bondiani ricorderà una sequenza di Operazione Tuono, entra in scena Caine, ancora baffuto e appesantito. Di certo non rammollito nella mente perché lui, come le sue controparti inglesi, hanno sempre considerato lo spionaggio come una grande partita a scacchi. A dispetto di ogni ideologia e ogni morale. Kutzminsky infatti sfugge ai russi, e pure agli inglesi e fa appello alla figlia che si è rifatta una vita (la sempre  splendida Susan George).

La ragazza, ignara di tutto si è fidanzata con Robert Powell pensando che lavori per l’ONU. Il giovanotto, invece, è il miglior agente di Scaith (Laurence Olivier), altra vecchia volpe dello spionaggio. L’uomo che pur essendone amico ha insidiato per anni la moglie di Kimberly, e poi è diventato capo dell’MI6. Olivier dà vita a una caratterizzazione eccezionale, ambigua come tutti i personaggi della storia. Né lui, né Caine né il terzo protagonista della storia, sir Chorley interpretato da Charles Gray (altro reduce bondiano, fu Blofeld in Una cascata di diamanti e Dikko Anderson in Si vive solo due volte) sono caratterizzati in modo netto. Possono essere buoni o cattivi a seconda delle circostanze. Eroi o vigliacchi, patetici o coraggiosi. Sono le regole dello spionaggio secondo la visione del film. Non c’è ideologia che tenga. È il Grande Gioco.

Gray che poi è il vero traditore ansioso di recuperare il microfilm incriminante è un personaggio perfettamente delineato. La sua omosessualità si mimetizza in società per esplodere in momenti di grossolana volgarità ma anche in momenti di incredibile stolidità quando si convince che un agente americano, anche lui omosessuale e suo amante, si sia impiccato in seguito a una storia proprio con l’agente Powell che, in verità, è etero e sinceramente innamorato della figlia di Kimberly. In tutto questo quadro che prevede mosse e contromosse, appuntamenti e sotterfugi a volte non sempre plausibili Caine si destreggia con abilità ma forse con minor convinzione di Olivier e Gray. È, alla fine, un vecchio furfante che propone come ultima battuta proprio al suo amico-nemico Scaith di gabbare tutti i servizi rivendendo in proprio la lista dei traditori. Non è fedele a nessuno e non esita a uccidere un innocente locandiere amico della figlia per non essere scoperto. Malgrado ciò, la bella Susan  sbatte gli occhioni e agita i capelli, animata da amore filiale e, alla fine, è l’unica, insieme a Powell, a restare “pulita”.

        

Un’avventura spionistica che forse si gode di più oggi, con un pizzico di nostalgia per la Guerra fredda e le sue atmosfere. Nel ricrearle Young è maestro anche in un film tutto sommato a budget ristretto. Aiutato da Peter Hunt (altro bondiano) nel montaggio, schiera in campo per brevi scene anche due dei caratteristi più amati del filone. Vladek Sheybal (il Kronsteen di Dalla Russia con amore nonché comparsa di moltissimi altri film) nei panni di un generale sovietico e Gordon Jackson che in quegli anni era il capo dei Professionals, nonché attore spesso usato dallo stesso Young.